La notte dei tosatori neozelandesi. La tenda di Giovanni Paolo II sul Gran Sasso. 

venerdì 27 luglio 2012 20:15

di Vincenzo Battista

Erano entrati nel suo “regno”, di notte, sì, il suo regno, tutta la montagna “fino a che gli occhi possono guardare”, diventata per uso e consuetudine “sua” secondo una visione antica, una sorta di investitura forse perché è la montagna del solitario San Franco peregrinante, o forse secondo diritti di origine feudale nei quali, ad esempio, un principe o un barone riconosceva ai suo sudditi, nel portare bovini e ovini al pascolo, “pascolatico ed erbatico, legnatico, acquatico o fungatico”: raccogliere legna, prelevare acqua, raccogliere funghi per aiutarli a sopravvivere, i sudditi, e tenerli sul paesaggio montano come forza lavoro, forme aggregative iniziali da cui poi si sono consolidati gli Usi Civici, ma molti secoli dopo.

Ma torniamo a quella notte. Entrano dunque, e lasciano lì un grande monolito di lamiera che alle prime luci dell’alba assomigliava sempre di più a quello di Kubrick, “2001 Odissea nello spazio”, comparso sulla luna, ma questa volta invece viene prima osservato, annusato, e strofinato poi dai mastini abruzzesi che si sono acquattati, a semicerchio, apparentemente indifferenti intorno a quella diversità imperscrutabile per loro. Ma aspettano.

Si aprì, infine, e come da un cubo magico, uscirono fuori i neozelandesi coperti di tatuaggi che con “Sterpone”, il “Re leone” delle Malecoste, a gesti, tra slang e dialetto di Camarda riuscirono ad accordarsi per il gasolio, la birra, tanta birra, e soprattutto per il lavoro da fare.

Sbarcati in Inghilterra molto tempo prima, avevano percorso gran parte dell’Europa fino a spingersi a sud, alla ricerca di mandrie da tosare con quella “macchina delle meraviglie”, magica, costituita da un gruppo elettrogeno, forbici elettriche, ponteggi, ringhiere e pedane per ridurre a qualche giornata, invece di molte settimane, il lavoro di tosatura di centinaia e centinaia di capi di ovini dello stazzo di “Sterpone”, alle pendici di Pizzo Camarda.

Ho appena finito di raccontare a Giorgio Zecca l’incontro con “Sterpone”, avvenuto molti anni prima, quando l’elicottero che pilota trova la posizione nelle correnti, plana, sfruttando la pressione esercitata sulle pale durante la discesa controllata e infine atterra dentro il recinto vuoto dello stazzo di “Colle Pantano”, 1200 metri, contrada montana di attraversamento per Pizzo Camarda.

Le pecore di Angelo Spagnoli, detto “Sterpone”, “fino a che gli occhi possono guardare”, classe 1930, nato il 24 dicembre a Camarda, “quando è nato il Bambino” ci tiene a sottolineare, sono al pascolo sulla montagna di San Franco.

“Ho fatto tanti mestieri – ci dice subito – ma ci siamo sempre ripiegati alle tradizioni di una volta. e quella mattina presto – ha inizio il suo racconto – sono andato alle vaccine, sopra i Piani di Camarda, località “Precoglio”(Procoio). Ho visto due teli, una specie di tenda e una persona che girava intorno. Quando sono sceso, a mezza montagna, lungo la strada brecciata che costeggia Pizzo Camarda, verso le dodici e mezza, diverse macchine salivano: ma questi dove vanno? Ho detto, ma dove andate sopra la montagna; che “iete fecenno”? La sera, poi, verso le 17.30, sono risalito con le pecore, al pascolo, e ho rincontrato la stessa macchina della mattina, che scendeva e, dietro, le altre. Erano stati tutto il giorno in montagna. Si sono fermati e hanno detto: “Che bel posto, qui sopra, è meraviglioso”. Gli ho risposto che è un bel posto ma se ci vai con la bufera, l’inverno, a riprendere le bestie, non è un bel posto. La macchina è passata, ha proseguito, e poi sono arrivate le altre. Un uomo della seconda macchina mi ha chiesto se conoscevo il Papa. Ho risposto che lo vedevo in televisione. ha continuato:”Passa un po’ qui dietro”, ha aperto lo sportello e il Papa stava seduto, “stea ringhicchiatu”, vestito di bianco; si è messo a sorridere, aveva una faccia rossa. Lui ha parlato per un po’, ma io non lo capivo, ci sento pure poco. Era anziano, colorito, rosso, stava bene, era contento. Mi ha detto se avevo sempre fatto questo mestiere con le pecore. Gli ho toccato la mano. Ma guarda che onore a venire qua il Papa. E’ rimasto in macchina. Mi ha dato un borsellino con lo stemma del Vaticano con dentro una corona. Adesso che scendete sotto, ho l’abitazione vicina allo stazzo, se vi fermate vi offro la ricotta fresca, ho detto. Le macchine però hanno proseguito”.

Quando andiamo via, l’elicottero inizia a volteggiare, a spirale, ci alziamo, prendiamo quota, fino sopra il pinnacolo di Pizzo Camarda, a quel terrazzamento sui due versanti, quella balconata, il Piano di Camarda, dove per molte ore nella tenda ha sostato il Papa: una sorta di eden con laghetti, prati, cavalli al pascolo. Un ambiente raffinato, esclusivo per gli escursionisti che lì cercano la qualità, i grandi scenari paesaggistici diversificati, e la cultura di contrasto dei due versanti: verde smeraldo, corsi d’acqua, lussureggiante, opulento, a nord, nella Val Chiarino e sullo sfondo il lago di Campotosto; brullo, sterile, pietre, sudore e fatica negli accampamenti pastorali nella valle del “Vasto”, a sud.

“Chi vuole davvero ritrovare se stesso deve imparare a gustare la natura, il cui incanto si sposa con l’intima affinità col silenzio della contemplazione.” ha scritto Giovanni Paolo II, nel libro “Pensieri sparsi”, un’antologia di quasi cinquecento pensieri – guida tratti dai suoi discorsi, dai suoi scritti e pensiamo anche dalle sue visite silenziose tra le vette di questo paesaggio delle affinità elettive.

 

Fotografie di Vincenzo Battista