Il romanzo senza tempo della pietra aquilana.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

“Mi ricordo che quando eravamo in sette, otto persone a lavorare alla cava, era come un’orchestra; ogni masso suonava secondo le dimensioni… ” – mi dirà più tardi. Adesso, località “Collardoso”, a sud del paese, lungo quello che fu il Tratturo magno. Un labirinto di vie tra i banchi di roccia calcarea dell’antica cava, dalle alte pareti, sotto un orizzonte che è inutile cercare, sprofondato così com’è nel bianco accecante delle falesie di pietra, dove il suono delle mazze di ferro sulla roccia sembra rimbalzare, rincorre l’eco, quasi all’infinito, sui compatti e bianchi calcarei di arenaria per restare poi prigioniero in questo dedalo di percorsi scavati da generazioni e generazioni di uomini: gli scalpellini di Poggio Picenze. I massi sonanti, una sorta di magia, che rivelano, di tanto in tanto, quando si aprono, spettacolari conchiglie fossili custodite in queste alte trincee della Conca aquilana superiore. ” Il masso quando suona è buono, quando non è buono, suona come una patata: il masso deve essere sonante”, racconta la tradizione popolare dei cavatori di pietra di quei calcari dell’Eocene (seconda epoca geologica), cristallini, bianchi e grigiastri che le famiglie dei Ranieri, Rainaldi, Panella, Bonomo, De Berardinis selezionavano in una tecnica di estrazione che non è cambiata poi di tanto rispetto agli antenati medioevali che nella città augustea di Peltuinum ( 27 a. C.), nell’Altopiano di Ansidonia, a pochi chilometri di distanza da “Collardoso”, lavoravano nel riuso le pietre delle colonne, dell’acquedotto, dei basamenti, dei podi su cui sorgevano i templi e le recuperavano, le antiche pietre del borgo fortificato romano. Venivano infine riadattate ai nuovi contesti architettonici delle torri di avvistamento e dei castelli fortificati medioevali in una tecnica di lavorazione che si è protratta nella memoria fino ad oggi, ma che sicuramente trova origine proprio nella tecnica edilizia dell’antica Roma. Le fasi di estrazione della pietra a Poggio Picenze, consistevano nel liberare i massi dalla terra e poi, selezionati secondo il ” verso”: se troppo grandi, con punte di ferro, i ” panciotti” e infine con l’aiuto di “zeppe” e “cugu”. Dopo la sgrossatura nella cava, venivano trasportati nel luogo della lavorazione artigianale a dorso di cavallo o su un “carro matto”, singolare mezzo di trasporto che somigliava ad una slitta, e sugli assi i blocchi venivano poggiati, legati con catene, trainati dagli uomini e dai cavalli. Poi i blocchi erano sgrossati con scalpelli a punta, ” lo schiantino” e a denti “il gravino”, oltre a martelli e mazze tra cui la “bocciarda”. ” Ottima indurando all’aria mantiene bella politura” scriveva alla fine dell’Ottocento Teodoro Bonanni della pietra di Poggio ” che quando la vedi – continuano i racconti – la prima cosa è come giace perché ha parecchi versi per iniziarla a lavorarla. E’ buona la pietra di Poggio, è dolce, con le intemperie e con gli anni, fa una pelle di circa un centimetro, dura, che i ferri non possono più intaccarla e cambia pure colore…”. E poi ancora ” Duas finestras de petra de Podio Picentiae” ordinava, per la sua casa nel 1487, l’aquilano Mattuzzio di Pasquale di Machilone allo scalpellino Pietro di Giampietro. Ma con la “pietra gentile” di Poggio, come la definì Silvestro d’Ariscola, allievo di Donatello, nel XV secolo, non furono costruite solo finestre. L’Aquila, che aveva accolto nel suo quartiere di Santa Maria Paganica, come risulta da uno strumento notarile del 1376, gli scalpellini di Poggio, deve molto del suo arredo urbano al sito delle cave di pietra di Poggio Picenze: “La bianca finissima pietra calcaria” ricordata dallo storico Signorini fu usata a lungo nell’architettura civile e religiosa della città e del suo contado, con i suoi segni, che ancora permangono, come la chiave d’imposta di un arco, uno stemma in pietra, nel centro storico di Poggio, con gli oggetti e gli utensili per la lavorazione della pietra scolpiti in rilievo: lo schiantino, la gravina, la raspa, il compasso, la squadra, la riga, la punta e la mazzola: codici di riconoscimento e identificazione di una corporazione che vantava un ruolo di un artigianato colto negli Statuti aquilani e solo all’interno dello stesso nucleo familiare le tecniche e le capacità di lavoro venivano gelosamente ereditate. La pietra aquilana, il suo “viaggio” e la sua cultura termina, si conclude, quindi, con l’architettura del periodo fascista a L’Aquila comunque la pensiamo: elegante, nelle sintesi delle linee e nei volumi pieni, certo allora prorompente nella città tardo ottocentesca così concepita, ma oggi raffinata, a guardarla quell’architettura, soprattutto nella devastante occupazione che hanno prodotto poi i palazzinari e i loro demiurghi committenti in qualsiasi vuoto d’ambiente urbano utilizzabile, senza soluzione di continuità, in spregio al Genius loci che di quegli spazi urbani, fondativi delle ragioni collettive dell’antica città dell’Aquila, ne costituì il principio dei cittadini e l’inamovibilità delle leggi condivise, e rese visuale la “città – giardino” sospesa tra le plaghe montuose dell’Appennino centrale, come non potremo mai più rivederla.

 

Le immagini.

Il taglio di un blocco di pietra con i “panciotti” e zeppe nella cava di “Collardoso”, la bottega artigianale della  lavorazione della pietra, il borgo ellittico originario di Poggio Picenze ( foto aerea), lo stemma settecentesco della corporazione degli scalpellini in una chiave d’imposta a Poggio Picenze.