Testo e fotografia Vincenzo Battista.
Sembrano usciti da gruppi scultorei, statue lignee o polittici di rappresentazioni medievali; da deposizioni della Croce o Compianto, quei “Cristi”, distesi, con le braccia aperte e spalancate alla divinità, sul pavimento della navata della chiesa, con i piedi sanguinanti, i corpi che si girano e si avvitano dal dolore in una sorta di compendio della pittura bizantina, esausti dopo la prova, mostrano, a un nugolo di cineoperatori e fotografi, le effigie del martirio, le piaghe offerte sanguinolente, il simulacro della prova appena affrontate, mentre si rotolano, si dimenano, sangue, chiazze di sangue e brandelli di carne sono spalmati sul pavimento della chiesa settecentesca della Madonna di Loreto, a Pacentro, nella Conca Peligna. Gli “zingari”, così chiamati, loro, ragazzi, “disperati” in preda al dolore, imprecano; si lamentano, invocano e offrono con il loro corpo il “Tributo”, la liturgia del sangue versato che a tratti si scorge, nelle formelle della chiesa, “ tracciato” poi lungo il sentiero impervio, nei grandi massi del torrente Vella, fino alla montagna, la partenza, nel luogo chiamato “Colle Ardinghi”, “Pietra spaccata”. Ma è tutta la scena dinamica-ancestrale che sembra figlia di una dimensione teatrale, una sacra rappresentazione popolare, un dramma cinetico, un rituale antico, magico-iniziatico nel palcoscenico di una cavea, un largo impianto geografico naturale dove gli “Atti” si susseguono, dalle urla laceranti, le azioni sono incalzanti, gli effetti straordinari davanti a migliaia di spettatori “dell’arena” nel Pantheon degli eroi , è allestita in scena la diversità, una storia altra. Pacentro quindi, pendici orientali del borgo che urbanisticamente disegna un grande anfiteatro, e la montagna, Colle Ardinghi, in controcampo, dove sono scesi correndo a piedi nudi, sfidando la paura e le antiche inquietudini della loro stessa “essenza”. E’ la “corsa degli zingari” vissuta la prima domenica di settembre ( parte al suono della campana della chiesa, per 3 chilometri, da Colle Ardinghi fino all’edificio religioso del borgo), locale attribuzione forse longobarda, ma molto di più sembra, una prova fuori dagli schemi, che affonda in forme tribali ma dalle convenzioni dei rituali popolari delle feste celebrative le “divinità” religiose, le ricorrenze sacre, in onore dell’entità miracolosa, la Madonna di Loreto, e lo vedremo dopo, che non ha eguali nella storia delle tradizioni religiose abruzzesi. Una vera e propria prova di iniziazione (che la Chiesa ha accolto ma non celebra) sposta l’attenzione su di loro, quei ragazzi, eroi, per un giorno dell’anno, nella “Corsa”, contro il loro stesso “tempo”, contro tutte le convenzioni, eletti “Cavalieri” in una investitura unica, al vespro, dopo la prova, come nei remake delle leggende medioevali di riscossa degli umili, dei sottomessi, “zingari appunto”, in una storia dura, impegnativa e lacerante, di riscatto a affrancamento, che si deve solo superare per essere accettati ed eletti dalla comunità locale. E alla fine il “palio”, al vincitore, un taglio di stoffa con cui si avvolge lo “zingaro”, mentre è già notte quando viene portato in trionfo per le vie del paese da parenti e amici, accompagnato dalla banda musicale, fino alla casa dove i genitori lo aspettano. Il “palio”, pregnante riferimento simbolico, costituisce una sorta di ricapitolazione della storia, un compendio della vicenda dell’identità culturale dello “zingaro” vincitore, non solo nel suo rione di appartenenza: l’essere percepito come bene collettivo, stimato e apprezzato per le sue gesta da “Paladino” che ha sfidato la montagna, la paura e il dolore e si è consegnato alla Madonna di Loreto che in pochi giorni guarirà le ferite e le lacerazioni ai piedi, come narra la fonte orale degli antenati “zingari” che guardano la montagna, li vedono passare, gli anziani zingari, figli di un Dio minore.