‘La paura mi paralizza. E in essa c’è qualcosa di abietto che mi umilia, come non sono stato mai umiliato in vita mia’. 

martedì 18 settembre 2012 20:42

di Vincenzo Battista

Voci della memoria. Sulla cattedra il registratore; davanti i ragazzi, incuriositi. Poi scende il silenzio.

Niente da aggiungere prima che prema lo starter “se non che loro avevano, più o meno, la vostra età”, dico.

“Andavano nelle campagne, nascondendosi nelle capanne, tra le canne e piante di pomodori. . . ” “Impaurito, mezzo nudo con una coperta stracciata addosso e una tavola rigata, di quelle che si usano per lavare i panni, ci dormiva sopra. . .” “Per la miseria, nel canneto c’è un ragazzo, prepara un po’ di latte, mettici qualcosa, io non lo capisco ma deve mangiare. . .” “Era spaventato, era uno scheletro. . .” “Quel povero Cristo stava nascosto, voleva parlarci, ma a sentire i tedeschi riusciva solo a tremare. . .” “Mia madre faceva la minestra con i cannarozzetti neri, ci metteva sugo, formaggio, ricotta, faceva una pentola e io gliela portavo dietro la siepe. . .” “Li nascondevamo nelle cantine, nei pagliai, nelle stalle. . .” “Voleva ringraziare mio padre, mise la mano nel taschino per dargli il tabacco, offrì solo le briciole. . .” “La gente faceva grandi sacrifici, rischiava la vita anche perché i tedeschi facevano saltare in aria le case. . .”

“Andavo a pascere le pecore e portavo a mangiare ai prigionieri inglesi. . .” “C’era una persona che in tutto segreto radunava gli evasi sotto Pacentro, alla macchia, alcuni si univano con i pastori e le pecore. . .” “Lo vestirono da contadino, gli si misero accanto, con gli arnesi del pastore, e lo portarono oltre le linee, lo salvarono. . .”

Nel film-documento sulla Shoa, “Schindler’s List”, di Steven Spilberg, “La lista è vita” dice un uomo mentre consegna l’elenco dei nomi ebrei all’industriale tedesco che così li avrebbe salvati dai forni crematori dei campi di concentramento nazisti; “Intorno – continua mostrando la lista – c’è solo il buio, la morte”, la stessa, implacabile, che attendeva centinaia di fuggiaschi – dopo il bombardamento della stazione ferroviaria di Sulmona – dal campo di concentramento n° 78, Fonte D’Amore.

“Intorno”, loro, non trovarono Schindler, “Il Giusto”, ma i contadini, i pastori, la gente che viveva nei villaggi alle pendici del Morrone, famiglie numerose, dentro case spoglie e povere, già sottoposte dai proprietari dei fondi agricoli a condizioni disumane nei contratti, per esempio “alla voce”, senza diritti, per lavorare “da sole a sole”, vessati dall’alba al tramonto, coloni di un’economia povera e di sussistenza che non poteva emendarsi da quella condizione, diventata regola sociale.

Quelle persone non sottrassero la loro dignità davanti a quei ragazzi persi e impauriti, condannati all’arresto e alla deportazione, non sottrassero la solidarietà e l’aiuto di fronte a quella catastrofe umana fuori dall’uscio delle proprie case.

Molti li salvarono, sfamandoli, con quel poco che avevano e “in quelle giornate – ha scritto il Senatore Ciampi – fu scritta con grande spontaneità una vera epopea popolare. Una tra le pagine più nobili e forse tra le meno note della nostra Storia. A quegli eroi, noti e sconosciuti, noi rinnoviamo, con commozione, il nostro grazie. Allora fece ingresso in scena il popolo italiano, con la sua antica civiltà, con la sua grande umanità.”, racconti, “voci” che ancora oggi si tramandano, di casa in casa, da Badia a Bagnaturo, da Case Lupi a Marane, borghi che cingevano il campo “78”, fino a Pratola Peligna con i centri della Conca Peligna e oltre.

“Era spaventato, era come uno scheletro”. Così Vincenzo Petrella trovò l’ufficiale Uys Krige e i suoi compagni di fuga il 16 settembre 1943.

“Ricordavo il caso di un fattore di Casa Giovane – scrive Ignazio Silone di Petrella e dell’amico Uys Krige nella premessa al romanzo L’avventura di un povero cristiano – sulle pendici del Morrone, che diede ricovero e nutrimento a lui e ad altri due evasi, durante più di un mese, anche dopo che un’ala della fattoria fu requisita dai tedeschi. La moglie e i figli del padrone di casa partecipavano a ragion veduta alla pericolosa avventura da cui poteva scaturire la loro fucilazione. In un momento in cui la catastrofe sembrò inevitabile, riuscì fortunosamente ai tre ricercati di allontanarsi travestiti da contadini”.

Petrella li nascose dentro la cantina della masseria patronale di Villa Giovina, dentro una botte di cento ettolitri (“Come Diogene”, scriverà molto tempo dopo Krige nel suo libro), mentre i tedeschi requisivano gli appartamenti della villa per allestire il Comando.

Vincenzo li sfamò, li vestì, cambiava loro continuamente nascondiglio e dal Morrone, poi, i fuggiaschi inglesi, raggiunsero le linee degli alleati, il punto più settentrionale, il V° corpo britannico dell’Ottava armata, oltre il Trigno.

La notte che li accompagnai in montagna – ci disse Petrella – Krige mi diede un diario, un fascio di carte, tutto scritto a mano. Vincenzo lo nascose dentro un barattolo, sotto terra, ai piedi di una grande quercia che siamo andati a vedere. Molti anni dopo quel fascio di carte diventerà il libro “Libertà sulla Maiella” (prima edizione inglese 1946, tradotto con questo titolo dalla Vallecchi nel 1965) che oggi, a distanza di tempo, contribuisce a ricomprendere il significato di una parola antica, semplice, quasi allontanata dal tempo, “libertà”, con le sue attese, i suoi stati d’animo, la voglia di riscatto nella ferocia della guerra, descritta, appunto, in un brano del libro “The way out”, Libertà sulla Maiella.

“. . . Tengo la testa dietro un alberello, in modo che se i tedeschi cominciassero a sparare da questa parte potrei rapidamente coprirmi. Ma la paura mi paralizza. E in questa c’è qualcosa di abietto che mi umilia, come non sono stato mai umiliato in vita mia: è tale umiliazione mi scende così nell’intimo che per la prima volta sento che se avessi un’arma ucciderei senza esitare. Cerca di ragionare. Sono assolutamente certo che non sarò ucciso. Alla peggio mi feriranno. Così non ho paura che mi sparino addosso. Ho paura solo di essere catturato. L’idea della fuga, di attraversare ad ogni costo le linee per raggiungere i nostri è diventata così ossessiva che ogni ostacolo adesso mi risveglia la paura. . .” sì, ogni ostacolo, di un mondo che poi improvvisamente viene agevolato, può diventare piccolo, dove le persone si rincontrano, dico ai ragazzi, dopo che abbiamo ascoltato quelle voci della memoria; può, questo mondo, diventare forse un romanzo, protagonista la sorella di Vincenzo Petrella, che in Australia, ritrova incredibilmente il pilota del ricognitore abbattuto nella zona di Villa Giovina, nei pressi di Bagnaturo.

Quel pilota nel 1957 era tornato, lì, in quei luoghi (non aveva trovato nessuno poiché la famiglia era intanto emigrata in Australia), per ringraziare quella donna, quella famiglia che lo aveva salvato dai tedeschi nascondendolo dentro un pollaio, per molto tempo, fino alla sua “liberazione” che non è stata dimenticata e rivive, ogni anno, con una marcia (da Sulmona, per Guado di Coccia, propaggine meridionale della Maiella, fino a Casoli) , dentro quel percorso che è molto di più, un “passaggio”, una sorta di pellegrinaggio, promosso dall’associazione culturale “Il sentiero della libertà /Freedom Trail”, con sede presso il Liceo Scientifico “E. Fermi” di Sulmona.

Sì, la scuola, anche così ci piace pensarla, i ragazzi, lungo quel tracciato che racconta pietre e terrore; boschi, angoscia e riscatto, dove ogni piega della montagna evoca testimonianze drammatiche, di fuggitivi verso la libertà, verso le linee alleate, e infine, perché le idee, la progettualità di questa iniziativa che sa “guardare”, possa diventare un Bene culturale, Patrimonio della storicizzazione del paesaggio dell’Appennino con dentro il catalogo di storie personali, e perché no, anche quella quercia, dove alle radici Petrella nascose il barattolo con le carte, quella quercia, da queste parti ci piace pensare, qualcosa vorrà pur significare.

 

Fotografie Vincenzo Battista