L’aratro e il solco diritto della “divinità”.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

“…Il lungo rettilineo della conca prativa – scrive nel 1963 Ignazio Silone di un viaggio, quasi fosse un’istantanea, un lampo di memoria, un flashback della pianura di Rocca di Mezzo -, tutta verde, senz’alberi, senza case, con alcune mandrie di cavalli e ovini ai piedi dei monti, era dominato da un grande senso di pace. L’aratura, come la domatura dei vitelli e dei puledri, era allora un privilegio dei piccoli e medi proprietari e non dei servi. In seguito quasi ovunque l’aratura, decaduta, è diventata una fatica come le altre, ed è venuto a mancare ogni motivo di gara. A Roccadimezzo essa ha conservato invece una particolare solennità. Si svolge a settembre, quando, a quell’altitudine, i lavori dei campi sono terminati e i villeggianti, per il sopraggiungere dei rigori autunnali, sono ritornati in città. È una gara notturna che dura dieci ore, nell’ oscurità e nel freddo, e alla quale partecipano contadini in gruppo, costituito ciascuno da quindici uomini, alcune mucche e un aratro. La vigilia si preparano gli arnesi occorrenti per la gara: aratri, zappe, paletti, lumi, torce. Molti fanno scommesse sui risultati della gara. Il giorno stabilito, all’Ave Maria, sul piazzale della chiesa, che si trova nel punto più alto del paese, si accende un faro; a questo segnale le squadre, che si sono già portate nei campi a notevole distanza dal paese, iniziano la marcia. Esse procedono parallele, avanzando faticosamente con gli aratri attraverso il terreno accidentato, superando nel buio, tra incitamenti, ordini e richiami, ogni specie di ostacolo naturale, siepi, ruscelli, avvallamenti. Il giorno seguente una giuria assegna un premio alla squadra che ha tracciato il solco più diritto. Tutte le squadre partecipano poi, con gli aratri adorni di festoni e con le bandiere conquistate nella gara – conclude Ignazio Silone – alla processione in onore della Madonna…” della Neve e della fertilità dei campi (ma anche protettrice, si racconta, contro la peste),del buon auspicio tra il giorno e la notte allegoria, quest’ultima, del solco diritto tracciato per oltre tre chilometri; nasce da lontano, “dall’ordine” nei campi, “dal principio” compositivo del paesaggio agrario: la sua geometria rigorosa, una rigida disciplina delle linee dei terreni e dei termini di confine. È la prova, per tutti i concorrenti del rito collettivo, primitivo, che sfida la notte e penetra come una sorta di ancestrale rituale ludico: purifica il lavoro dei campi prima dell’autunno inoltrato, quando i terreni, una volta, venivano sbancati e si aprivano le zolle arse con gli aratri in legno trainati dagli animali per la semina del grano, l’attività più importante del ciclo agrario: economia fondante della famiglia contadina, un tempo, suo sostentamento. E’ la prova dell’aratore, dell’imbiffatore, degli zappatori (così chiamati) scelti dentro le squadre, ognuno con un ruolo ben preciso, ma che molti decenni fa si muovevano tra i fumi e i vapori che si alzavano intorno all’animale sudato, illuminato dalle lampade a petrolio portate a mano, battuto, frustato, quasi trascinato dalle funi e dalle imprecazioni degli uomini, da quelle urla atterrite, laceranti per superare i fossi ed intuire gli sbarramenti naturali, guardando sempre il faro di luce indicatore metafisico della notte iniziatica di luna piena di Rocca di Mezzo, di bestie e uomini che si trascinavano per propiziarsi “la divinità”, sì la terra…

La gara del solco diritto orientato verso il campanile di Santa Maria della Neve, Rocca di Mezzo.