Testo e fotografia di Vincenzo Battista.
“ …La ragazza restò a piangere nel bosco, piena di paura del Re selvatico che viveva in quel bosco e mangiava tutti quelli che trovava. Quando ebbe pianto per un pò, s’asciugò gli occhi e si addormentò nel cavo di un albero. Al mattino, il vecchio Re selvatico, andando a caccia, inseguiva un cervo ferito. E invece di seguire il cervo, trovò la giovinetta addormentata. Vista la sua bellezza la svegliò: – Vuoi venire con me? Non aver paura – le disse. La ragazza acconsentì e segui il Re selvatico nella sua casa in mezzo al bosco dov’egli viveva triste e tutto solo, cacciando e senza vedere anima viva. La ragazza prese a fargli le faccende di casa e il vecchio selvatico s’affezionò a lei come una figlia…” narra il brano iniziale della favola abruzzese del “Re selvatico” di Italo Calvino, raccolta insieme a molte altre della regione, nell’antologia delle “Fiabe Italiane”, pubblicate da Einaudi nel 1956. Provengono dalla tradizione degli ultimi cento anni, e lui, Calvino le ha trascritte dai vari dialetti locali.
«Era per me – scrive – e me ne rendevo conto, un salto a freddo, come tuffarmi da un trampolino in un mare in cui da un secolo e mezzo si spinge solo gente che v’è attratta non dal piacere sportivo di nuotare tra onde insolite, ma da un richiamo del sangue, quasi per salvare qualcosa che s’agita là in fondo e se non perdercisi senza più tornare a riva»: il mondo fiabesco popolare, il racconto del magico e del meraviglioso in quei componimenti narrati che sembra non abbiano un’origine, senza tempo, dagli echi profondi, gli antichi saperi di un Abruzzo arcaico che non ha mai cessato di respirare, dilatarsi attraverso la narrazione, in ogni luogo, arcano ma che lentamente si svela.
«Mi sono imbattuto nella ricerca – continua Calvino – e le fiabe mi hanno colpito per la loro bellezza, in una antichità che non è solo preistoria, ma anche pregeografia» come il bosco, ad esempio, il bosco che muta, si trasforma, lascia la fiaba e «dal cavo di un albero» diventa forma, simbolo, si fa materia: il bosco di pietra, quello di Domenico Celi, artista – artigiano della pietra. Il bosco si trasforma, si ferma come per magia, cessa la sua lenta metamorfosi, si bloccano i suoni e gli echi profondi che rimbalzano tra gli alberi; l’incantesimo è adesso, intorno alle creature che lì vivono magicamente trasformate; la natura sospende il suo lento divenire; la luce filtrante tra gli alberi rimarrà così immutata, inspiegabile sortilegio, la si può quasi toccare.
Che cosa è questo luogo prigioniero dell’evento che non ha tempo? Non ha un passato nella ragione, ma è qui, adesso, creatura, il bosco non più dialogante, ma attore di una dimensione altra nella scenica stasi dove tutto sembra evocare il mistero incantato della foresta di pietra, degli uccelli di pietra in una dimensione onirica: lasciarsi dietro le certezze, entrare, perdersi, con esiti immaginativi e imprevisti, liberando la fantasia, i sentimenti, i pensieri nel luogo oscuro e misterioso, inquietante e ostile di una entità impenetrabile rispetto allo spazio affettivo, il costruito, e urbanizzato in cui viviamo e da cui proveniamo, dettato questo dalla ragione; metafora del selvaggio, delle profonde paure ancestrali è patrigno, il bosco, del labirintico smarrimento interiore, spirituale, lontano dalla nostra esperienza razionale, sinonimo di malessere e disagio diffuso poiché non conosciuto, incontrollato, implacabile pronto a sopraffarci. Si cammina tra gli strati delle foglie di pietra in uno spazio nuovo, da reinterpretare, per capire… il bosco di pietra.
Celli diceva di sé «sono un semplice operaio, invece». Evocava con i suoi lavori in pietra, e coagulava, ancor più stringenti e complesse metafore, forse oltre la fiaba. «Scelgo queste forme, perché mi piace creare, trasformare le pietre in qualcosa che fa parte della natura; io la natura la vedo così, come mi si presenta… secondo le mie capacità. Nelle forme che scolpisco ci sono i rami potati, tagliati, il fusto del pino su cui sta la colomba. Queste cose non hanno un nome, come la serie di tronchi: la foresta. L’ho iniziata molti anni fa, non l’ho mai venduta, non mi interessa, non saprei dare un valore; sono una persona semplice, comune», che ha saputo trasportare il racconto dei “tempi remoti” in un bosco in pietra, dove una serie di elementi simbolici, attraverso i loro innumerevoli codici scolpiti, incisi, lavorati come fossero un uncinetto, raccontano saggezza e ricchezza di una terra scomparsa, ed adattati come una fiaba che cataloga le storie, i destini, le coscienze, e recano un messaggio che forse può spiegare la vita, come quel «fusto del pino su cui sta la colomba…».