Testo e fotografia Vincenzo Battista.
Nel Medioevo, un fiume che lambiva il borgo era immondo, la superstizione vedeva l’acqua portatrice di malattie, contaminazione del corpo vulnerabile alle infezioni. Ma tuttavia, l’acqua dei fiumi si poteva bere, tanto che prima andava bollita con l’aggiunta di miele, piante aromatiche selvatiche e vino questo usato con parsimonia. Si riteneva che i fiumi fossero avvelenati e densi di presagi funesti, le carcasse degli animali giacevano sulle sponde, i lupi e gli orsi che vi si immergevano, gli uccelli e soprattutto i cinghiali si bagnavano e percorrevano lunghi tratti sulle rive, cervi e stambecchi che sostavano nelle pozze del corso d’acqua. I pesci, invece, venivano pescati e asciugati incrociando i pali di sostegno, e poi salati per la stagionatura. L’acqua dei fiumi ambivalente, tuttavia: da una parte la purezza del suo flusso che scorreva e si purificava sbattendo sulle rocce affioranti secondo principi filosofici, il suo sapore che sapeva di limo e piante acquatiche ma accettabile; dall’altra parte, le cautele per il potenziale pericolo che l’acqua potesse penetrare nei pori della pelle e compromettere il corpo umano, oppure berla provocava irritazioni sulla stessa pelle e dolori lancinanti allo stomaco a detta degli igienisti del Medioevo nei loro trattati redatti sui corsi d’acqua, tanto che in quel contesto storico di convivenza delle comunità nei borghi, sorti sulle sponde dei fiumi, non ci si lavava poi tanto…




















