Testo e fotografia Vincenzo Battista.

L’umanità non abita la solitudine, ma solo per pochi e pertanto è, in primis, luogo dell’osmosi con la natura, la montagna e i suoi codici, l’isolamento e i grandi paesaggi, l’accettazione del lavoro svolto, la “civiltà” che è  lontana e, se arriva quel debole eco, si vive comunque dentro una capsula. Tutto questo è un involucro non permeabile, un mondo chiuso di cui non conosciamo nulla o quasi nulla, sì, da queste parti del Chiarino. Come nel film “ Corvo rosso non avrai il mio scalpo” (di Sydney Pollack, 1972, interpretato Robert Redford, cacciatore sulle Montagna rocciose, braccato dagli indiani per avere il suo scalpo, e non lo avranno), così Monte Corvo del Gran Sasso d’Italia non è stato mai in grado di prendersi lo scalpo a centinaia di personaggi di Arischia che nei decenni passati hanno sfidato le bufere che il Monte guardava: tempeste d’acqua, grandine e nebbia fitta, i branchi di lupi, i ripari nel bosco fitto, tormente e loro chiusi e barricati dentro le capanne in pietra, gli interventi sugli animali da medicare in assenza del veterinario, il cibo preparato sotto le intemperie, le notti a vegliare i capi ovini, gli olaci, i frutti selvatici e i funghi raccolti, precipizi e ripari tra le rocce con le mandrie: i pastori della transumanza verticale in definitiva. Non erano soli. Con loro una migrazione dell’infanzia, diremmo oggi, siamo intorno agli anni  ’50 e fine anni ’60 del Novecento: i “bescini”, così venivano chiamati. Bambini migranti, i loro 10 anni, salivano con le mandrie sui muli accompagnati dai genitori, restavano da giugno a settembre nell’area geografica denominata “Vaccareccia” con i suoi sbarramenti in pietra a secco e il villaggio diffuso di capanne, dove l’imbuto geologico del Chiarino si comprime. Le famiglie con numerosi componenti se li toglievano dai nuclei di appartenenza, potevano “mangiare”, i “bescini”, sfamarsi raccontano, tolti dalla povertà. Le loro mansioni: esigue, minimaliste, marginali nell’accampamento dei pastori dove trovavano alloggio. I “bescini”, dentro i “mandroni” in pietra o i recinti in legno e corda, spingevano i capi ovini allargando le braccia (i toccatori) nella mungitura dei “guadi” dello stazzo, poi raccoglievano la legna, prendevano l’acqua, pulivano i secchi di legno e mangiavano pane e ricotta. Alle famiglie dei “bescini” di Arischia venivano dati lana e formaggio. Ma la loro Disneyland, il “soggiorno”, il parco dei divertimenti del Chiarino dei “bescini”, come ricordano e raccontano alcuni che hanno vissuto quell’esperienza, era quel mondo onirico estivo di libertà, mitigato dai laghetti nelle fosse dove immergersi, corsi d’acqua, giochi nei boschi dell’Eden, i prati in cui rotolarsi, la libertà adolescenziale nel “viaggio” ludico, la scoperta nella natura delle fantasie e dell’armonia, della gioia e serenità per quell’età, poiché da lì a pochi anni sarebbero entrati nel nuovo mondo del lavoro duro e spietato, a volte crudele, di privazioni senza sconti ,e provate voi a pensare quale sarebbe stato per loro…  in questo lembo ai confini del Gran Sasso d’Italia.

Il rifugio “Fioretti” del Chiarino, incontro con Domenico Picco, il gestore.