L’Aquila, città di Celestino V o della maldicenza?

“Libereremo mai L’Aquila dalla maldicenza?”

 di Vincenzo Battista.

 

L’AQUILA. È stato “tradito” o no lo spirito della singolare tradizione aquilana del “rito” di Sant’Agnese, la festa dei linguacciuti, facendone un fatto culturale e addirittura un festival? Dalle cene tra amici alle kermesse tra filosofia e politica, con iniezioni di lobbismo variamente inteso? Attorno a questo “capo d’imputazione” ruoterà “Il processo al Pianeta maldicenza” che apre oggi pomeriggio alle 17,30, all’auditorium “Sericchi” del centro direzionale Strinella 88, gli appuntamenti messi in campo dai cultori della materia in città, gli esponenti del cosiddetto “movimento agnesino” da anni in prima linea nella promozione della festa al di fuori dai confini cittadini per farne diventare un “vanto” per il capoluogo abruzzese.

Con il “processo”, ironico e goliardico ma non troppo, il movimento agnesino ha inteso mettersi in discussione affrontando la principale critica, non preconcetta, che viene mossa alla manifestazione ormai consolidata vista anche la crescita del numero delle confraternite (206 sono quelle più o meno “ufficiali” censite).

La pubblica accusa sarà affidata al noto avvocato Antonello Carbonara, già presidente dell’Ordine forense dell’Aquila, convinto assertore che il rito è solo popolare e non culturale.

Per la parte civile parlerà il docente e scrittore Vincenzo Battista: “Libereremo mai L’Aquila maldicente”, il titolo della sua arringa che si avvarrà di fotografie, grafici, letture attraverso i quadri di opere d’arte, immagini della città che ricostruiscono alcuni eventi.

La difesa sarà affidata agli altrettanto noti avvocati Umberto Pilolli (fondatore di una delle più attive congreghe, “Balla che te passa”, e inventore della “Sant’Agnese delle Sant’Agnesi”, iniziativa più antica dello stesso Pianeta Maldicenza) e Giulio Cesare Primerano (Priore uscente della più antica Confraternita, quella dei Devoti). Ma soprattutto la difesa si avvarrà di un consulente d’eccezione, il professor Tommaso Ceddia, presidente onorario dell’associazione “Confraternita aquilana dei “Devoti” di Sant’Agnese” e ideatore dell’iniziativa, nel 2003, insieme al segretario a vita Ludovico Nardecchia.

A giudicare, una “corte” d’eccezione:

il presidente sarà Nicola Trifuoggi, magistrato di lungo corso, che indosserà di nuovo la toga, stavolta nelle vesti non di accusatore bensì di giudicante. Con lui due donne: il notaio Franca Fanti e la delegata del Fai dell’Aquila Enza Turco.

(Quotidiano IL CENTRO)

 

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L’Arringa, di Vincenzo Battista

Signor Presidente, signori  giudici, noi della parte civile, abbiamo dato anche il titolo alla nostra arringa : “ libereremo mai L’Aquila dalla maldicenza?”  , che è il soggetto danneggiato dal reato, che intende far valere, innanzi a voi,  la propria domanda di risarcimento . Sì, è l’Aquila, che chiede, la restituzione prima , e il  conseguente ripristino, dopo, in quanto, a nostro parere, c’è uno status quo, modificato  illegittimamente, che riguarda una situazione di fatto alterata. Ma qual è la situazione alterata, lo capiremo al termine del mio intervento. Per adesso rimane criptica ( anche a beneficio del pubblico). Attenzione, parliamo dell’Aquila, che ha diversi significati, per tanto ho bisogno di presentare i documenti del caso, fino alla loro esplicazione, avvalendomi  anche di immagini, in questo racconto, che al termine svelerà l’aquila maldicente.

 

BENE –  DIRE        MALE –  DIRE

 

Signor presidente, noi,  parte civile, riteniamo, di  trovarci davanti ad un magmatico, avvolgente, non a caso chiamato “pianeta”, esercito in marcia, che non si ferma, una sorta di nuova demografia, plebiscitaria, organica, strutturata, identificativa, ma di un valore altro, dei cosiddetti  agnesini, autoproclamati “custodi” della città, che avrebbero fatto persino impallidire le milizie di Fortebraccio da Montone, nell’assedio dell’Aquila, nel 1424, ma a nessuno venne l’idea; molto più di una corporazione, caleidoscopica, che, da una iniziale cospirazione, riteniamo, è giunta infine a noi, dilagante, con  una geometria variabile attualizzata dalle congreghe (da congregare, letteralmente “riunire in gregge”, ma il termine è adoperato nel contesto della Chiesa cattolica), congreghe laiche di sant’Agnese quindi, con tanto di statuti,  giuramento solenne degli adepti, l’albo d’oro del pianeta, il censimento delle confraternite , il glossario delle cariche elettive e i relativi bandi, rituali magici al plenilunio, elmi variopinti della corporazione dei pittori e speziali, dai pigmenti rari; scudi istoriati di antiche stirpi e spade cesellate; preziose corone delle botteghe orafe aquilane che indossano, e persino,  una nuova gastronomia di chef emergenti, dagli esiti dirompenti: la treccia di sant’Agnese (forse perché fu martirizzata, coperta, solo, dalle sue abbondanti chiome), e poi sedi,  convegni, spettacoli e premi letterari, templi, recinti sacri, nonché il conferimento della Targa ad insigni personalità italiane, ma noi non lo comprenderemo mai, che si sono distinte particolarmente, “nel dire e nell’agire, nell’eroica virtù”, questa la motivazione del premio. Targa, conferita, persino ad un alto Prelato, mentre Papa Francesco, durante l’Angelus, condannava determinati atteggiamenti, lo capiremo a breve, dal nome che riveleremo, mentre il Papa, appunto, diceva: “Quando io sparlo, quando io faccio una critica ingiusta, quando io spello un fratello con la mia lingua, questo è uccidere la fama dell’altro. Anche le parole uccidono. Facciamo attenzione a questo”.

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La divinità, chiamiamola così, quindi,  ha un nome: la maldicenza, condannata dal Papa nell’Angelus, sì signor Presidente, ha capito bene, la maldicenza, e il suo  editto, una sorta di cupola , sopra la città, “La maldicenza, questo nome crudele e diabolico”, scriveva san Agostino, nelle sue Confessioni ,  tutto questo a L’Aquila, città di una delle più antiche diocesi italiane, con facebook , twitter, siti web dove convergono migliaia di persone, con un nuovo vocabolario per noi incomprensibile, insieme agli studi ( i lavori li chiamano, e i vincitori vengono premiati) e ai seminari:  educativi, pedagogici sig. Presidente, con  giuria artistica e popolare ( molto ambita e ricercata,  che si somma ai  molti incarichi che tanti hanno, in questa città), e infine , la presentazione del programma della maldicenza, da parte del sindaco , in municipio, mi deve credere, non è una battuta ad effetto, è proprio così, ha dato il patrocinio, il riconoscimento, cioè a dire “ Fratelli, patrioti maldicenti, uniamoci”. Possiamo solo immaginare la complessità e il duro lavoro dell’ufficio stampa e  comunicazione del Comune, nell’istruire la pratica del patrocinio alla maldicenza. Che cosa possiamo fare contro la maldicenza, quindi? Dobbiamo contrastate, arginare forse, fronteggiare un popolo che vi si riconosce, e in continua crescita che, nel suo antico forziere, custodito in una cripta – si racconta –  sembra dei templari, nelle viscere della città, sotto piazza Duomo, ha una epica frase , dai caratteri gotici, scolpita in una lastra di pietra, sorvegliata notte e giorno, dove è scritto: “Da uno capisci come son tutti”, salvo poi  scoprire che hanno copiato Virgilio, Eneide, libro II , 65-66. No, noi no, signor presidente,  non dobbiamo fronteggiarli, sarebbe inutile, semmai  provare a difendere una minoranza, residuale, un enclave blandita, perseguitata e derisa, che prova a nascondersi, si traveste, persino si mimetizza, cerca di scomparire in luoghi inenarrabili, illuminati da una luce fioca di candele, ma in fondo, si riunisce, segretamente, poiché vuole solo liberare l’aquila maldicente  quando, nelle giornate dei dio bifronte Giano, nel mese di gennaio, in nome della inconsapevole, povera martire cristiana,  Sant’Agnese ( si rivolgono a lei come devoti),  e viene  evocata dalle legioni agnesine in un religioso, si fa per dire, convincimento, la città dell’Aquila  muta i suoi caratteri di antica stirpe e, in una metamorfosi incomprensibile, si trasforma.

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Nella basilica di Sant’Agnese fuori le mura, a Romanel catino absidale, vi è l’opera più preziosa e più antica dell’intero complesso religioso: un mosaico raffigurante Sant’Agnese risalente al 625-638, circondata da un abbagliante fondo oro, tipico esempio dell’influenza bizantina. Ai piedi della santa si pongono gli strumenti del suo martirio, il fuoco e la spada e  tra le braccia, rotulo e giro della stola. Varie e contrastanti sono le notizie sulla sua vita,  il martirio, e la persecuzione dei cristiani sotto Diocleziano, all’età di 12 anni.

Secondo alcune fonti , il figlio del Prefetto di Roma si era invaghito di Agnese, senza essere ricambiato, avendo la giovane fatto voto di castità a Gesù. Dopo il rifiuto della ragazzina, il padre del giovane, saputo del voto di castità, le impose la clausura fra le vestali  e poi la fece rinchiudere in un postribolo. Qui, però, nessun cliente aveva osato toccarla, tranne un uomo, che la tradizione religiosa vuole accecato da un angelo bianco, ma per intercessione della stessa Agnese, Dio, gli rese la vista. La tradizione agiografica  racconta che Agnese, accusata di magia, fu condannata al rogo, ma le fiamme si divisero sotto il suo corpo senza neppur lambirlo, ed i suoi capelli crebbero tanto, da coprire la sua nudità, il 21 gennaio del 305. Non vogliamo pensare, che per queste sue vicende, la sua figura, è legata alla maldicenza…

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Ma, a proposito di rogo e maldicenza, che non colpisce soltanto l’uomo, in un lontano passato, a L’Aquila, nel 1500, fu processato un asino sacrilego, che, “invasato dal demonio, aveva profanato un’immagine di Gesù, prendendola con i denti e imbrattandola di bava”. Se ne occupò lo storico Giovanni Pansa, nel 1891, in uno studio sui fondi storici antichi, dal titolo: “Processi di animali e avanzi di essi in Abruzzo”. L’asino fu condannato e arso vivo davanti al chiostro degli Agostiniani. Nel 1786, a Pacentro, fu istituito un processo a locustre e bruchi che arrecavano danno alle “canape, al grano turco, alle ortaglie, minacciando altresì di rovinare i seminati e le vigne” della campagna circostante. A Roccaraso, Pratola, Sulmona, Pescocostanzo, si procedette senza pietà contro i galli stregoni “ che fanno l’uovo dal quale deve nascere il serpente a tre teste”. A Barrea, verso la fine del 1700, si ingiungeva a grilli e pulci dei piselli, con bandi ( ordini scritti)  dell’autorità municipale, di liberare le colture. Questi avvenimenti, che oggi possono sembrare solo l’espressione bizzarra di una visione del mondo, ormai lontana della nostra cultura, sono stati invece conseguenza coerente della maldicenza in una concezione magico- religiosa della realtà, che affidava al maligno, nelle sue infinite forme  di manifestazione, una presenza, e una incidenza, nella vita quotidiana delle comunità. Se la magia, che dà luogo a queste manifestazioni maldicenti, sul territorio, può convivere con la religione, significa che è alternativa, e la comunità, comunque, va liberata dalla presenza del maligno attraverso l’abiura ( rinuncia sotto giuramento) e la morte con il fuoco ( come per l’asino). Il fuoco quindi, il rogo, elemento catartico, purificatore per eccellenza.

 

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La città e il suo contado, quindi, sig. Presidenti e giudici della corte, nella ricorrenza della maldicenza, e le sue antiche istituzioni (musicali, artistiche, teatrali, scolastiche, e pensiamo per un momento, se tutte queste energie, potessero essere indirizzate invece nella beneficenza)decretano, finalmente, che è giunto il momento: fuori tutti, uniti, solidali, come non vedremo mai, signor presidente, in nome,  e per conto, del mito della maldicenza, che dalla torre civica della città, come una sorta di divinità, Atena Nike, li benedice, per la battaglia, imminente: tabaccai, imbianchini, cassiere e parrucchiere, docenti, grafici, impiegati e studenti, scrittori e giornalisti e medici, tubisti, carrozzieri e venditori di pesce e fruttivendoli; sarti e avvocati, intellettuali ultra settantenni, amanti e amati, ripudiati e truffatori, rinviati a giudizio e in procinto di esserlo; secondini, carcerati in semi libertà, ladri appena dopo aver commesso il furto e meretrici- cortigiane, farmacisti e osti, falegnami e meccanici e calciatori, agricoltori e benzinai, pizzaioli e post telegrafonici, amministratori e politici di alto rango che decidono sui  destini di questa città,  e l’elenco non potrebbe mai finire, aggiungiamo i quotidiani, agenzie di comunicazione, le reti televisive nazionali e regionali, che inviano i  loro prestigiosi giornalisti, quelli di punta. Voglio qui leggere questo brano tratto da un giornale web, dalle parole che sembrano pietre, testamentarie:  ” il titolo: L’Aquila riabbraccia il centro con un torrone gigante che salverà Celestino V, un mega torrone di 99 metri “, scrive una giornalista, in questo pezzo, che leggo : “Piazza Palazzo è davvero splendente , una serata bellissima, che chiude la quattro giorni del festival, del “Pianeta della maldicenza”, legato a Sant’ Agnese, tradizione tutta aquilana, stasera, e dolce in mezzo a tanto amaro. Non può essere più bella di così. Mette i brividi, l’Inno d’Italia, suonato sotto alla Torre di Palazzo, una cornice perfetta che toglie fiato, nonostante tutte le sue ferite, tornare in quei luoghi, per ognuno, è quella dose di morfina che placa un dolore lungo 4 anni..”. Da non crederci, sig. presidente, ha avuto tanto successo questo pezzo, che nel progetto-case, hanno istallato gratuitamente dei distributori automatici di morfina, che magari possono servire a quei fastidiosi e insistenti aquilani, che si lamentano, per rientrare, nelle loro case, del centro storico, senza parlare poi dell’inno d’Italia, ribattezzato agnesino. Decida lei sig. presidente, serenamente, se è un gossip, la realtà supera la fantasia…

E poi, a proposito di un giornalismo, che si occupa delle cene di san’ Agnese, ascoltiamo questo brano che mi sembra, non esattamente in linea, e solleva dubbi  sui principi, fondativi, del “ Si dice male, non si dice male”, in un clima di satira mordace mai pettegola, mai diffamatrice, mai calunniatrice”, citazione questa ripresa dal sito aquilano www.maldicenza.it. Valuti lei, sig. Presidente. Ecco il brano   “: “A cena, si scalerà poi, a temi più squisitamente intimi ai gruppi, più o meno digeribili, corna e tricorna, beghe sul lavoro, tra famiglie, e chi più ne ha, più ne metta.

Un vero tritacarne, che esalta alcuni e disgusta altri, i fanti della non scarna pattuglia degli “anti-Sant’ Agnese”, alcuni semplicemente discreti, altri più radical chic, comunque tutti pronti a celarsi dietro un velo di discrezione e silenzio che, in fondo, in mezzo a tutto il ciarlio, risuonerà stasera dalle finestre dei locali cittadini, magari neanche guasta.

E i temi di dibattimento agnesino – continua il pezzo – certo, non mancheranno. A partire, ci sarà da scommetterlo, dalle vicissitudini tapiresche della senatrice & lo spogliarellista, che fanno discutere la città pruriginosa, che pare più ansiosa di scoprire gli aspetti privati, che non quelli pubblici della coppia”.

Devo ricordare, sig. Presidente, che anch’io sono giornalista, pubblicista. E pertanto, quanto su esposto, va inteso come contributo per la ricerca di un linguaggio più consono, mi permetto di dire, sicuramente c’è un modo possibile, e non già mai , nell’intento, di demolizione, di un ordine, dei giornalisti, a cui io appartengo.

Leggo, infatti, adesso, dal libro Gianrico Carofiglio, “ La manomissione delle parole” un brano sul significato delle parole : “ A Roma, Sallustio fa dire a Catone. Davvero abbiamo smarrito da tempo il vero significato delle parole. Profondere i beni altrui vien detto liberalità, la spregiudicatezza nelle male azioni è sinonimo di forza d’animo; per questo lo Stato é caduto tanto in basso!”.

Sì, Sig. presidente, le congreghe dei giornalisti in lingua e indipendenti, i cosiddetti giornalisti, mi perdoni la battuta alla Crozza, che nello stesso periodo di gennaio, a distanza di pochi giorni da Sant’Agnese e la maldicenza, onorano  San Francesco di Sales (1567-1622), Patrono degli scrittori e dei giornalisti, la cui memoria si celebra, il 24 gennaio,  con una cerimonia religiosa alla presenza spesso del vescovo, con la liturgia e la comunione.

 

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San Francesco di Sales, nel dipinto di  Giovan Battista Tiepolo( Venezia, 5 marzo 1696 – Madrid, 27 marzo 1770, siamo nel  tardo Barocco), conservato ad Udine, nella pinacoteca del  Castello, con la penna d’oca nella mano destra,  abbigliato con una veste talare, indica con la mano sinistra il libro, da cui ha appena esposto le sue idee contro il male e schiaccia, con il piede destro, la personificazione dell’eresia, un demone,  tanto mostruoso, quanto umano con il libro e la serpe, dalle cui labbra sanguinolente  fuoriesce il fumo pestilenziale  delle sue velenose parole.

Ma  Sentiamo che cosa scrive della maldicenza San Francesco di Sales. “Se ti imbatti in un maldicente senza pudore, per scusarlo, non dire che è una persona libera e franca. Il maldicente, con un sol colpo vibrato dalla lingua, compie tre delitti: uccide spiritualmente la propria anima, quella di colui che ascolta, e toglie la vita civile a colui del quale sparla.

Il giudizio temerario causa disprezzo del prossimo, orgoglio e compiacimento in se stessi e cento altri effetti negativi, tra i quali il primo posto spetta alla maldicenza, vera peste delle conversazioni. Vorrei avere un carbone ardente del santo altare per passarlo sulle labbra degli uomini, per togliere loro la perversità e mondarli dal loro peccato”.

 

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E se, il cristianesimo, utilizzava il serpente per definire il demone, il grande male, che attanaglia e minaccia la verità della fede cristiana, nel mondo antico, siamo intorno alla fine del I sec. a. C., abbiamo un manufatto, in pietra calcarea, proveniente da Amiternum ( custodito nel museo nazionale d’Abruzzo, al Borgo Rivera), un coperchio funerario a forma di serpente, chiamato ombelico, per la sua forma a spirale, protettivo, messo a guardia e a tutela delle sepolture, inviolabile, e celebrato nei riti dalle divinità, soprattutto nel Fucino, sacro custode dell’aldilà. Tutti, non è un eufemismo, ma proprio tutti, signor presidente, nelle giornate mitiche della maldicenza, accorrono, finalmente liberati da una quotidianità che li ha oppressi, sfiancati, demotivati, vogliono essere, sì, vogliono essere,  si abbracciano, e si augurano lunga vita in una ritrovata giovinezza, intorno ad una sorta di  nuova arca dell’ alleanza, che mancava dalla costruzione della cinta muraria del ‘300 : che spettacolo sig. Presidente. E poi sfilano gli agnesini in un corteo per le vie aquilane al suono della fanfara con le tute nere disegnate dagli stilisti Dolce e Gabbana e la consulenza dell’Accademia italiana della Crusca , qualcuno giura che si spargono i fiori al loro passaggio, i condomini non litigano più, che magia, nel fiume Aterno torna l’acqua a scorrere, contenti  intonano cori, portano con sé i simulacri della sapienza e dell’onore ritrovato, gli stendardi e il labaro, ( attenzione, il labaro, era l’insegna  militare romana – un vexillum-, che utilizzato sin dall’epoca dell’imperatore Adriano –  117 d. C. – solo quando questi si trovava davanti alle  legioni, costituito da una lunga picca dorata e da un’asta trasversale), ma non certo quello della maldicenza, che chiamano impropriamente labaro, con la scorta d’onore dei pretoriani agnesini raggianti, grati a chi ha potuto tutto questo, consacrati nel rito antico annuale di sant’AGNESE, come riportato dai codici miniati medioevali dei monaci amanuensi, conservati nella cattedrale gotica deju boss, bevono alla fonte rigeneratrice della maldicenza, che sacerdoti officianti del pantheon, che grande bellezza, che felicità, che popolo, che città dalle “virtù civiche” mi sembra di aver letto proprio così nei loro statuti. Evviva.

 

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“Salvate il soldato Ryan”, ogni granello di questa spiaggia è stato messo sotto tiro,” se restiamo qui moriremo”, racconta il film in una sequenza della spiaggia di Omaha, ma noi dobbiamo salvare il soldato Amedeo Esposito, un galantuomo, una persona per bene, una grande conoscitore di questa città a cui andrebbero tributati maggiori riconoscimenti: dobbiamo toglierlo dalla spiaggia di Omaha, salvarlo dal fuoco amico delle mitragliatrici della maldicenza, dai colpi di mortai del “si dice male, non si dice il male”, dalle mine antiuomo “della critica sincera della maldicenza”. Dobbiamo toglierlo da quell’inferno di fuoco, salvarlo, e riportarlo tra noi.

 

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E, poi, il trionfo dei discepoli agnesini, l’apoteosi della glorificazione, la liturgia degli eroi, che si compie: ma prima, un lontano rumore, che si avvicina, forte poi, avvolgente, riempie l’aria:   CH-47 Chinook , elicotteri pesanti, da trasporto, con due pale e due  2 rotori, tanti sono, da oscurare il cielo, sorvolano L’Aquila, trasportano grandi schermi , che infine vengono poggiati, nelle periferie, nelle frazioni, nelle piazze dei borghi , Sig. presidente, da rimanere allibiti, sconcertati. Tutti escono, si accalcano gli agnesini, si radunano intorno agli schermi, migliaia e migliaia di persone, con la testa in su per guardare lo spettacolo che da lì a pochi minuti andrà in onda. Scende il silenzio, parte il titolo del film,” La maldicenza, il nostro faro”, con i brani musicali, le immagini e una voce fuori campo. Mi hanno raccontato che con caratteri cubitali vengono proiettate le 265 cariche agnesine, aggiornate al censimento 2009 ( come riportato dal sito della maldicenza aquilana), un glossario, in definitiva, una raccolta di termini, ne citiamo alcune: , la Lima Sordaju Zellusuju Recchie Freddeju Capisciò, mamma deji c…. deji atri, ju “non ji sta bonu ‘nu zippu n’c…”, lavannara , commare lavannara- lavannara con la pretola, recchie pelose, ju verme, ju “vengo sempre a ora de magnà”, ju porcu, c… ruttu, ju ca……, ju colicoide, v’occa larga, la jatta furastica, recchie e prete, quindi, cariche elettive, ambite, desiderate, e infine votate dal pantheon degli agnesini, in quella serata di san’ Agnese, indimenticabile… e poi altre che non possono essere citate, per decoro di questa sala, anche se so, che mi sono spinto, molto in avanti. E ancora, il censimento delle congreghe e delle confraternite agnesine, che sono 205 e ne riporto alcune, e cerco di decodificarle, di comprenderle, di dargli una ragione sociale, ci provo sig. Presidente: Confraternita giornalisti in lingua ( mai avuto dubbi su questa autenticità), Confraternita “Balla che te passa” ( senza soluzione di continuità, qualcuno dovrà fermarli) , Accademia culturale di Sant’Agnese (  ci vuole far parte anche l’enciclopedia  Treccani), Congregazione delle lengue ’gnoranti ( non chiederemo mai di convertirsi) , impiegati del Comune dell’Aquila ( siamo certi della rapidità delle pratiche), Nobile, congrega de “ji fjii avvinazzati de Sant’Agnese” ( il programma di riabilitazione va avanti), Liceo scientifico “Andrea  Bafile”( la maldicenza centrale nell’esame di stato), Fraterna nostra di Sant’Agnese – medici(  e meno male che non c’è più il tribunale d’inquisizione) , La Schola de ingegneria ( certi della ricostruzione), Gli eterni allupati( petizione per riaprire le case di tolleranza) , Confraterna ju silenzio dopo ju picchieru ( provate a pensare in che stato troveremo la sala), Ju club delle lengue zozze ( vogliamo sapere dove si trovano, aiutiamoli), gli amici termoidraulici di Epica ( ma il presidente è per caso La Contessa Pia Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare  della ItalPetrolCemenTermoTessilFarmoMetalChimica), Santa Agnese della Questura ( liberi tutti, andate e arricchitevi), Congregazione della Polizia giudiziaria – Tribunale ( ma allora è una società ideale senza più reati), Associazione intercomunitaria di Sant’Agnese ,conviviale di tutti i comuni del territorio della Comunità montana Campo Imperatore, Piana di Navelli ( questi sono stati invitati dalle Nazioni unite dell’ONU, a parlare di sé) , Banda larga e c… strittu ( per psichiatria questo è un problema), La Sant’Agnese intercomunale dell’Aquila (  Intercomunale, perché?Ma non vi hanno costruito le mura medioevali intorno?) , Congrega dei giornalisti  indipendenti ( e di questo ne siamo convinti), Congrega dell’agenzia n.1 della Carispaq ( ritiriamo i nostri risparmi ), Le meijo Agnesine e Le quatrane che stanno ‘nnanzi,  (e possiamo solo immaginare che cosa ci troveremo dietro. Mi scuso sig. Presidente, io non sono così, ma questa era una battuta a portata di mano, molto agnesina….), Gruppo “Born to be alive” ( tradotto dell’ inglese, nati per essere vivi, proprio per non farci mancare nulla), tralasciando infine le congreghe delle frazioni e  dei comuni della conca Aquilana.
Per verità, dobbiamo dire che l’Istat, davanti alle 470 cariche di questo primo censimento, non si è scomposta, anzi, qualcuno afferma che ha fatto presente, in una nota, che il monitoraggio deve continuare, anche con la creazione di un ufficio apposito, per la registrazione delle centinaia di cariche ancora mancanti, su corso Vittorio Emanuele, in un palazzo appena restaurato. Noi ci opponiamo a questo, ritenendo che le priorità della città siano altre…

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Ma invece quali erano le priorità di un’altra citta, Firenze, in uno dei suoi periodi più bui, causati forse dalla maldicenza? La Calunnia è un dipinto a tempera su tavola, di Sandro Botticelli, databile 1494 .Negli Anni ’80 del Quattrocento la produzione di Botticelli iniziò a rivelare i primi segni di una crisi interiore, che culminò nell’ultima fase della sua carriera in un esasperato misticismo, volto a rinnegare lo stile per il quale egli si era contraddistinto nel panorama artistico fiorentino dell’epoca. Il suo stile si ripiegò, così, verso un più marcato senso di riflessione, contro la società fiorentina e i suoi fasti. Non più quindi La Primavera o La Nascita di Venere che inneggiava alla corte, ma la Calunnia.

Il vero “spartiacque” tra le due maniere è quindi la Calunnia, un dipinto allegorico, alto nel suo significato sociale, che ha inizio e prende spunto dalla maldicenza, che rivela tutti i limiti della saggezza umana.

La complessa iconografia di una grandiosa aula, riccamente decorata di marmi, e rilievi dorati, é affollata di personaggi; il quadro va letto da destra verso sinistra: re Mida (riconoscibile dalle orecchie d’asino, trasformato così dalla cupidigia di denaro, quello che toccava si trasformava in oro), nelle vesti del cattivo giudice, è seduto sul trono, consigliato da Ignoranza e Sospetto; davanti a lui sta il Livore (cioè il “rancore”), l’uomo con il cappuccio nero,  con una mano, impugna una fiaccola, che non fa luce, simbolo della falsa conoscenza, coperto di stracci, e tiene per il braccio la Calunnia, donna molto bella, che si fa acconciare i capelli da Perfidia  e Frode, mentre trascina a terra

L’ Innocente, impotente ; la vecchia, sulla sinistra, è il Rimorso, e l’ultima figura di donna ,sempre a sinistra, è la Nuda Verità, con lo sguardo rivolto al cielo, indica con la mano destra la luce del sole, la vera fonte di giustizia, che dovrebbe sentenziare e condannare la maldicenza, l’origine di ogni male, e dissipare le ombre della calunnia.

Un forte senso di drammaticità pervade l’opera e l’ambientazione fastosa, concorre a creare una sorta di “tribunale” della storia, in cui la vera accusa sembra essere rivolta proprio al maldicente mondo antico, e a quel neoplatonismo rinascimentale, ormai consumato, dal quale era assente la giustizia, uno dei valori fondamentali della vita civile.

È una constatazione amara il quadro, é dunque il segno più evidente dell’infrangersi di certe sicurezze fornite dall’umanesimo quattrocentesco a causa del nuovo e turbato clima politico e sociale che caratterizzerà la situazione fiorentina, dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, nel 1492; in città imperversavano, infatti,  le prediche di Girolamo Savonarola, che attaccò duramente i costumi e la cultura del tempo, predicando morte e l’arrivo del giudizio divino, e imponendo penitenza ed espiazione dei propri peccati.

Ma, Savonarola, venne giustiziato il 23 maggio 1498, anche se la sua esperienza aveva inferto dei colpi durissimi alla vita pubblica e culturale fiorentina.

 

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Ho chiesto, poi, sig. Presidente, ad una mia collega del liceo scientifico di Avezzano, insegna Fisica, di interpretare il quadro di Botticelli, La calunnia, attraverso le forze intese come vettore. Le figure del quadro sono state misurate, individuandone, la direzione, che è la retta sulla quale poggia il vettore, partendo dalla maldicenza, che sovrintende nella rappresentazione pittorica, re Mida, la Verità, l’innocenza ( con un vettore nullo, poiché non ha altezza, rispetto alle altre figure) il rimorso, la frode, la calunnia, il sospetto, la perfidia, il livore, l’ignoranza ( per esempio, è stata considerata in senso positivo – secondo Cusano, 1440, Cardinale, filosofo e matematico), e  l’avidità, che si cibano appunto, tutte, della maldicenza. A queste, gli è stata attribuita una forza, e i grafici, che seguono, nel primo, secondo e terzo passaggio, in sintesi, possiamo dire, si riducono ad una equazione finale, in cui la maldicenza è il vettore più alto, data la direzione, lungo l’asse: la grande forza, intensiva e negativa, é la maldicenza appunto.

 

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Ma adesso, ascoltiamo alcune citazioni , riprese dal sito web della maldicenza aquilana. “La maldicenza intesa non come pettegolezzo o come insulto, ma come sana e corretta critica, come strumento di valenza sociale e di leale antagonismo” cioè tradotto, signor presidente, immaginiamo, che un acrobata  si lanci da 15 metri: triplo salto mortale, volteggio, avvitamento, torsione e ricaduta in piedi sulla rete. Spettacolare, ma la citazione però, questa è spettacolare, che esercizio semantico, che lessico, formidabile avvitamento questo linguaggio di programmazione, dobbiamo forse inchinarci a questa formula linguistica? E poi , cito ancora:” la maldicenza, una critica sincera e costruttiva, linea guida di questa tradizione tipica del capoluogo d’Abruzzo». Ma può esserlo? E come dire, signor presidente , che il boia, prima di ghigliottinare, si rivolge al condannato dicendogli : “ Non ti preoccupare, cercherò di non farti male ”. Oppure,  ad un annegato salvato all’ultimo momento, gli si offre  un bicchiere d’acqua. Ancora un’altra citazione: “ SI dice male, non si dice il male”. Immaginiamo che un medico visiti  un paziente affetto da gastro- enterite acuta ( infezione intestinale), e gli  prescriva con i medicinali anche una cura a base di pecora alla “cottora”, tre volte al giorno, o come dire ai cannibali che possono mangiare vegetariano.

 

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“Nel 2001, riporto un brano di uno studente che ha scritto una tesi sulla festa di san’ Agnese – sono andato nell’archivio arcivescovile, scrive , nell’archivio di Stato, ho tirato fuori manoscritti, giornali d’epoca e quindi tutta la sezione di abruzzesistica della biblioteca “Tommasi”, riferimenti, testi che potessero affermare la veridicità dei fatti, che potessero trovare il collegamento tra il culto di san’ Agnese e la festa in questione, niente…. Conclude lo studente”. Tuttavia, sul motore di ricerca wikipedia, alla voce: festa di sant’ Agnese e delle malelingue, attenzione, adesso sì che la città dell’Aquila sta viaggiando nel web, per tutto il pianeta, nella bibliografia, si indica un volume misterioso,   AA.VV., Aggenda Aquilana, introvabile, prezioso manoscritto, forse andato perso per sempre, che svelerebbe finalmente l’arcana vicenda svoltasi in età medievale nel convento di san ’Agnese, dentro le mura dell’Aquila.

 

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E’ la fine di novembre del 1327, nel monastero di San’ Agnese, sito religioso a ridosso delle mura del Quarto di S. Maria Paganica, Guglielmo da Baskerville, un frate francescano, nel labirinto della biblioteca dello stesso un monastero dell’Aquila, scopre il luogo dove è custodito il manoscritto fatale che racconta la commedia e il riso intorno a San’ Agnese . Il bibliotecario tenta di uccidere Guglielmo, offrendogli il manoscritto dalle pagine avvelenate. Ma Guglielmo lo sfoglia, con le mani protette da un guanto, e allora, il vecchio monaco bibliotecario, in un eccesso di fanatico fervore, divora alcune pagine avvelenate del manoscritto, in modo, che, nessuno possa leggerle. Mentre Guglielmo tenta di fermarlo, il bibliotecario provoca un incendio, che nessuno riuscirà a domare, e che inghiottirà nel fuoco l’intero monastero dell’Aquila, e forse, anche il prezioso manoscritto su San’ Agnese, la commedia e il riso ( Nota. Poetica di Aristotele, secondo libro, dedicato alla commedia e al riso).

 

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 Nel film il Signore degli Anelli, agli occhi stupefatti di Frodo , le immense statue dei re di Gondor  si ergono ai confini del regno, nelle sponde del grande fiume , a barriera ed ammonimento dei viaggiatori indesiderati, alzano le braccia contro il male, contro la perfidia distruttiva e, per fermare il grande occhio della montagna, sì, il grande occhio del rancore e dell’odio che guarda, e si fa maleficio, si insinua nella contea, un fluido magico, della maldicenza, che porta distruzione nei villaggi, con il suo carico di risentimento. Il mondo, e la storia dell’umanità, diventano il campo della lotta, tra bene e il male, tra maledire e benedire”. “ Il male, che gli uomini compiono, si prolunga, oltre la loro vita, mentre il bene, viene spesso sepolto, insieme alle loro ossa”. ( William Shakespeare).

 

Ma la maggiore preoccupazione, signor presidente, quella che toglie il sonno alla nostra enclave,  e favorisce gli incubi, e potrebbe trasformarsi in realtà, è quella che è stata prima bisbigliata da un maldicente, a noi, nottetempo, dell’enclave. Poi  siamo venuti in possesso, di un documento, proveniente dalla cancelleria agnesina, che riteniamo micidiale per i suoi effetti, non credevamo ai nostri occhi. Questo documento lo abbiamo letto e riletto per giorni: la richiesta all’Unesco, il riconoscimento, dell’Aquila città maldicente, patrimonio dell’umanità, in sostituzione di un altro grande evento della città che è esattamente la plastica contrapposizione nei comportamenti, nelle azioni, dello spirito, sì abbiamo capito bene, dello spirito. Mi scusi sig. Presidente, adesso abbandono l’ironia, mi lascio alle spalle il sarcasmo, e mi perdoni la metafora,” voglio uscire in mare aperto, senza protezioni”:  adesso si fa sul serio.

 

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Sì, lo spirito dicevamo, un principio immateriale,  nel significato più profondo e vero, in una natura incorporea, lo spirito, intellettuale, di cui l’uomo, portatore, viene dotato per determinate qualità interiori, di purezza e pertanto, sig. Presidente, ripudia e rigetta, come male assoluto, la maldicenza. Questo spirito, si materializzò in un giovane 24 enne ( così narrano le fonti certe documentarie del 1306, del processo di Canonizzazione), vestito di stracci alle pendici del Morrone. Sì, lo spirito di quel ragazzo, con un nome importante, ha attraversato il tempo, e leggero e puro, incontaminato, è giunto fino a noi, fino a quel perimetro spaziale di gradini, dietro ad una porta simbolica, dove molte persone di inginocchiano, toccano con le mani le pietre consunte, calpestate, ma anche guardate, quasi indagate, con meraviglia, con quel rispetto e timore, di un’azione importante,  pregano, piangono alcuni, testimoni di tutto il tempo, che è passato lì, concentrato, quasi  si fosse flesso, piegato il tempo, e loro rimangono lì, soli, con il loro spirito, con le loro speranze e dolori, i loro patrimoni. Potessimo decifrarli sig. Presidente, potessimo entrare in quella antologia delle persone aquilane, in quelle pieghe di un epistolario collettivo: piccole narrazioni che scacciano la maldicenza, e diventano storia, che città altra questa, che forza sì questa, di un portato antropologico, comunque la pensiamo, di un rito che si spalanca, mette in prova la propria persona, che guarda, quasi a voler scorgere, ricercare, segni profetici incisi sulla pietra, dei gradini, toccata con le mani, mentre qualcuno siede lì, solo: rimarrà così, indifferente, al flusso di gente, continuo, silente, che attraversa la Porta Santa di Collemaggio: diaframma, tra il “male” maldicente, l’esterno, quello che si lascia alle spalle, senza voltarsi, e il “bene”, “l’attraversamento” materiale, iniziatico accesso, privato , al Perdono, che sembra, non appartenere più a noi, ma ha inizio, con coraggio, in quei pochi metri quadrati.

Dentro quel perimetro spaziale, che è il dividendo, il guadagno, il profitto, la rendita, ma solo spirituale, non c’è altro testamento di un uomo che ha  vissuto, prima, la sua vita anacoretica, la più estrema, delle grotte, nel raccoglimento e nella preghiera, e da Papa, poi, col nome di Celestino V, per andare “oltre”, seppellendo calunnia, frode, perfidia e sospetto, che insieme si cibano della maldicenza, con la Rinuncia, e ritornare nelle meditazioni, nella povertà delle grotte e nelle visioni profetiche. Un disegno, un ricongiungimento, a quella estremità, del recinto, che è protezione a quel cerchio che prende forma, la perfezione spirituale, condotta così a compimento: un anello di purezza e assoluta pulizia spirituale, dove la maldicenza, è scaraventata lontano, ma vuole entrare in quell’anello, che immaginiamo, avvolga e aleggi, la basilica di Collemaggio, mentre le carrozzelle dei malati entrano, i familiari si ritrovano nelle navate , nella penombra si uniscono nell’attesa della confessione.

Intanto, ai lati della Porta Santa, qualcuno è rimasto lì, tutta la notte, appena trascorsa. Il “grande respiro”, adesso è continuo, il grande polmone, del complesso religioso, ha preso a vibrare, per ventiquattro ore, fino alla chiusura della Porta Santa. La Perdonanza è solo questo luogo certo, centro di gravità assoluto, confessionale, indiscusso, non negoziabile, con le tante forme velleitarie che vogliono prendere la città dell’Aquila, espugnarla, e farla cadere, declinarla, e impoverirla, ma per quel che resta…, poiché la pietà cristiana, un certo tipo di pietà cristiana, e sfido chiunque a confutarla, consente di cogliere l’elemento che in questa città è una Rivelazione, l’annuncio di una condivisa religiosità popolare, in una forza elementare, ma da un altissimo principio ideale, quello del Perdono –  che batte, l’Anticristo, che custodisce nel suo ventre la maldicenza – con l’indulgenza, quindi, ma soprattutto, la comprensione verso la “persona”, al di là di tutte le qualità, psicologiche e culturali, di cui è portatore quell’uomo.

Celestino V, schiude un rapporto, che  era riservato a pochi privilegiati, per spalancarlo, in modo rivoluzionario, a tutti, si badi bene, nel ventre della Chiesa, senza più caste, classi o gruppi sociali; censi, rendite o patrimoni; poteri, autorità, doti e maldicenze, superando le mondanità della fede cristiana e i suoi opulenti luoghi di sfarzo e giochi di potere, per tornare ai valori originali, che erano stati sottratti alla Chiesa delle persone. E’ questa la Bolla del Perdono, “senza tempo”, catapultata nella nostra contemporaneità? Ma chi poteva osare, allora, chi poteva teorizzare tanto, partendo da un Medio Evo di morte, schiavitù e dolore, da cui noi proveniamo, la nostra città e la sua memoria collettiva, che ha abitato, anche sotto le macerie, per poi ripartire, e rinascere, e da se stesso, Pietro del Morrone, dai suoi stracci addosso, dai suoi luoghi impenetrabili della montagna e basta, mentre, tutt’intorno, la Chiesa era cresciuta in maldicente connessione con gli Stati, con le armi e il sangue nella mani; imperatori e papi, principi e vescovi che si accusavano e si maledicevano. Ma adesso, sig. Presidente, proviamo ad esporlo ad un bambino, questo racconto, che sembra un fiaba, proviamo a descrivere una storia semplice, proviamo a spiegare, insieme, che cosa è la  maldicenza e quel ragazzo di 24 anni alle pendici del Morrone. Si sceglie, sig. Presidente, adesso, si sceglie. Che cosa risponderà? Da che parte vorrà stare quel bambino?

Noi, invece, da che parte stiamo? Vogliamo vedere la faccia della moneta, come è caduta ( lancio della moneta in aula, nel processo), sig. Presidente: dalla parte di Celestino V o della maldicenza? Vogliamo vedere la faccia della moneta? Vogliamo affidarci al caso? Che cosa pretendiamo di essere? Si sceglie, in questa città, adesso, sig. Presidente.

 

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Le conclusioni e le richieste.

Libereremo mai l’aquila dalla maldicenza? La richiesta della parte civile, consiste, sig. Presidente e signori giudici, nel prendere in considerazione IL VALORE CHE RIVESTE lo stendardo della maldicenza, in cui è riportata  la dicitura “ Città dell’Aquila” e” Palio di sant’Agnese” ma, soprattutto, a noi, interessa L’AQUILA, disegnata, ALL’INTERNO DI UNO SCUDO.

Chiediamo, che venga rimossa, e tolta definitivamente, solo L’aquila dallo stendardo.

Noi, riteniamo che sì, quella immagine grafica, e il suo messaggio subliminale, o se preferisce l’immaginario collettivo, lo porta dritto a l’Aquila, simbolo della nostra città, un’aquila di Svevia, l’effige da dove tutto partì. L’origine dello stemma è legato alle vicende della città e, in particolare, alla scelta del suo toponimo. L’Aquila, lo ricordo, è una città di fondazione, nata nel XIII secolo, per motivi economici e politici, dall’unione di una moltitudine di villaggi. Secondo la leggenda  la scelta del nome, fu dovuta all’apparizione di un’aquila con velo bianco sul becco (avvenimento ritenuto di buon augurio), durante la fondazione della città,, mentre, le fonti storiche raccontano Acculum, Acculae, (così chiamato il sito per l’abbondanza delle sorgenti). Ma, oltre questa narrativa, che ho esposto, sig. Presidente, qui si pone un tema, che riguarda le libertà, e su queste il libero arbitrio: abbiamo mai considerato delle vere libertà? E se queste, fossero, quelle di non toccarle, le libertà , che sì, sono anche in quel disegno grafico dell’aquila; di guardarsi bene e riflettere, e fermarsi, prima, quindi, di “prenderlo” quel disegno grafico, e utilizzarlo? Viceversa riteniamo, che tutto si possa fare, riteniamo, in fondo, che tutto sia permesso, anche quando di tratti si un simbolo semplice, fragile, delicato, ma di un altissimo principio morale, e direi di più, mi permetta il pathos: che si iscrive nel nostra Dna, L’Aquila, in forma costitutiva e immateriale, da difendere,  l’Aquila quindi, che ha attraversato il tempo con il suo profilo grafico, ha attraversato i secoli: dal primo esemplare di stemma cittadino, situato alla base della torre civica in piazza del Palazzo, l’antico Palazzo del Capitano, ai disegni dei bambini con  il gesso sul selciato dei quarti, l’Aquila, sulla porta della Sala della lapidi  dello stesso palazzo municipale, oppure L’Aquila bianca su fondo rosso, accompagnata dai gigli angioini, come riportato nel 1320 da Buccio di Ranallo, usata nelle lotte degli aquilani contro i reatini ghibellini, fino alle maglie del rugby, sì va bene, nelle insegne delle macellerie, nei negozi, negli studi notarili sì va bene; nei cruscotti delle macchine, nei tatuaggi sulle braccia dei ragazzi, nei ristoranti l’aquila, il simbolo grafico, sì va bene, fino a quella gabbia in via Ovidio, nota come via delle Aquile, in cui il rapace veniva esiliato, umiliato e mostrato, in una città prigioniera del proprio blasone, e del suo fragile orgoglio, ricordato con vergogna. No, allora, sig. presidente, sullo stendardo della maldicenza no, non è il suo domicilio, non è suo linguaggio quello, no, non può abitare lì, come non comprenderlo. Come è stato possibile accostare l’Aquila alla maldicenza; perché, ci domandiamo, questo atto, contrario nei suoi profondi significati, e spiace constatare che nessuno se ne sia accorto, dentro la giostra delle giocose giornate della maldicenza, dove, mediaticamente, tutto si può fare. Potesse parlarci, quel simbolo dell’aquila, sig. Presidente, che cosa racconterebbe… lo tolga dallo stendardo, lei insieme alla corte, nel verdetto, la difenda l’Aquila, liberi l’Aquila, la tolga dalla gabbia, derisa, non la faccia sfilare più con la maldicenza, gli restituisca valore, gli restituisca il suo tempo, in nome della città dell’Aquila; che verdetto questo sarebbe: un atto semplice, ma da un altissimo principio morale, direi, di ricollocazione, in un comune sentimento degli aquilani, e degli antenati, attenzione, nei loro sacrifici, nel dolore e nelle speranze di questa città, che sullo stendardo, L’aquila, appunto, si vuole irridere.

 

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E infine, mi permetta, una nota autobiografica: molti, ma tanti anni fa, dalla mia abitazione, forse perché situata in un luogo aperto della città, mi capitò qualche volta di vederla, l’aquila; iniziava il suo viaggio da monte Ocre, passava sopra la città per poi  dirigersi sulle Malecoste del Gran Sasso, con  le sue chiazze bianche, sotto le ali, ripiegate all’indietro, trasportata dalle correnti, che spettacolo, unico sig. Presidente, con la testa curva sul paesaggio urbano, che forza, che impatto visivo. Un racconto, questo, una narrazione, di due sguardi, unici, originali, due scenari: l’aquila e la città che si guardano, evento questo, riportato, come autore, in uno dei miei primi libri. Ma adesso, libereremo mai l’aquila dalla maldicenza? Lo faccia sig. Presidente e giudici della corte.

 Chiudo il mio intervento, con un’ultima annotazione. Vogliamo convincerci  che i giudici a latere, che rispondono a requisiti di neutralità e imparzialità, non abbiano mai partecipato alle iniziative, legate alla maldicenza di San’ Agnese, né direttamente o indirettamente, e abbiano, mai condotto attività direttive, con la presenza di rappresentanti della difesa che qui tutela la festa aquilana, nelle azioni, e quindi nei comportamenti, forieri di quell’appartenenza  poiché, il loro giudizio, nel verdetto finale, riteniamo debba rispondere ad una attività immune da vincoli, presupposto della imparzialità, per evitare che si possa essere, o anche solo apparire, condizionati da precedenti valutazioni  e assicurare, pertanto, a garanzia delle parti, ne siamo convinti, l’applicazione del diritto. Grazie per l’attenzione, ho terminato sig. Presidente e giudici a latere.