Tra le valli dell’Aquila. La cittadinanza romana concessa ai nostri lontani antenati.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

“Tota Italia, alle origini di una nazione”, Scuderie del Quirinale, Roma. La grande mostra appena conclusa ci riporta alla nascita di una nazione, L’Italia (citata per la prima volta da Erodoto nel V sec. a.C.), con le sue peculiarità frammentate, le radici e identità unite per editto, sì, unificate ma che tuttavia dovevano “guardare” il mondo con gli occhi Roma, compresi noi, i sabini e i sanniti delle valli meridionali appenniniche. Su tutto c’è il giuramento di Caio Giulio Cesare Augusto (è stato il primo imperatore romano dal 27 a.C. al 14 d.C.), ossia la formula mediatica poiché tutti, ma tutti, vedessero “l’Italia Stato”, partecipativa, certo, unificata politicamente e culturalmente, con il mantenimento, tollerato, delle etnie con le loro ibridazioni: popolazioni locali, gruppi sociali, valori antropici non ostili verso il nuovo quadro sociale sotto l’insegna di Roma. La centralità dell’Urbe augustea dell’impero non è negoziabile, ma va bene una pluralità sociale di tanti gruppi sparsi nelle valli dell’odierno Abruzzo e nella divisione augustea, appunto, i sabini e i sanniti che entravano di diritto nel Regio IV con la concessione della cittadinanza: l’ingresso nel sistema Roma, prima metà del I secolo d. C.

La romanizzazione dunque di quell’Italia preromana, un videogame di genti e tradizioni cristallizzate, transumanti e dialoganti con il commercio. La lingua, la politica, l’abitare, l’uso del paesaggio, i riti e il culto dei morti per esempio, fino ai costumi tanto differenti nella penisola che restano tali, a prescindere dalla fedeltà verso Roma: un mondo comune nella diversità, variegato, unito certo nel diritto romano e nelle reti stradali, prioritariamente.

Nella mostra “Tota Italia”: un apparato mediatico comunicativo straordinariamente celebrativo per l’evento – mostra (irripetibile per la qualità e quantità di pezzi museali nei prossimi anni) e con collezioni di reperti archeologici e non solo provenienti da tutti i musei italiani, compresi il museo archeologico Nazionale La Civitella di Chieti e il MuNDA dell’Aquila, in particolare dalle stazioni archeologiche di Amiternum, Fossa (necropoli) e Luco dei Marsi.

I monumentali rilievi archeologici del nostro passato, in Abruzzo, esposti nella mostra. Il sepolcro detto” Rilievo con processione funeraria”, I sec. a. C. pietra calcare. Preservare la memoria, i messaggi scolpiti nel sarcofago, morire nel lusso nella durevolezza del ricordo. La magnificenza del sepolcro da Amiternum esposto nella mostra, dunque, la processione e l’autoproclamazione “filmica” del dinamismo delle scene scolpite e perenni nell’elogio pubblico. È la processione, con i musici dal doppio flauto, il corno e la tuba, e poi le donne assoldate per piangere e disperarsi teatralmente nel dolore così comunicativo per gli astanti. Il defunto disteso sul Kline, una lettiga sostenuta da otto portatori con le gambe dinamiche che avanzano e, dietro, un palco a baldacchino decorato con un cielo stellato e una mezzaluna. Infine i congiunti, i parenti, i servi, mentre le donne con i capelli sciolti in segno di lutto procedono prostate dal dolore. Morire nel lusso, cristallizzare il tempo, il mito della sepoltura: si celebra, adesso, tra esaltazione e paura dell’aldilà con i dispositivi di potere del personaggio defunto, di rilievo sicuramente, nella vita pubblica trascorsa. Angizia, III sec. a. C. divinità italica, dea, regione dei Marsi e popolazione osco-umbri. Il santuario conosciuto come Lucus Angitiae (il bosco sacro). La statua di terracotta la rappresenta seduta in trono con un panneggio abbondante nelle pieghe che scende dal mantello sul corpo: scopre una collana di foggia rilevante e un bracciale: Angizia è anche acqua del Fucino, il mondo sommerso sconosciuto anche legato agli animali selvatici che popolano il bosco: lì il suo dominio, la sua forza  dispensatrice sulle pratiche magiche, detentrice dei saperi occulti, padrona dei valori naturali che amministra, tanto che gli autori latini associano il suo nome da Angius ( serpe), incantatrice di serpenti. E poi i ritratti, i volti antichi esposti nelle teche della mostra, le sculture familiari nella brevità dell’esistenza, la memoria dell’individuo, tutto veicolato in quella tensione verso l’eternità, poiché l’aspettativa di vita era breve, un segno distintivo nei ritratti in marmo e pietra dell’Italia romana e gli attori che indossavano le maschere in cera nelle fattezze del defunto nelle cerimonie funebri, per poi conservarle nell’atrio della domus. E ancora il letto funerario di osso animale lavorato con sculture di Ercole e il leone nemea (la cui pelliccia era impenetrabile dalle armi). Gli ex voto: piedi, mani, arti, mammelle persino occhi di terracotta provenienti e rinvenute nei luoghi di culto. Alle divinità si chiedeva guarigione nei santuari. Molti erano gli infortuni nelle attività agricole, ma la particolarità era il “tracciamento” dell’ex voto della cultura preromana: teste maschili e femminili tagliate a metà di cui una depositata, appunto, nel luogo sacro, certificavano che sì, si aspettava il miracolo, e una volta avvenuto l’altra metà che si era mantenuta a casa – come ricevuta proviamo  a pensare – poteva essere ricomposta e la testa riprendeva la forma originale, senza tradire le emozioni sacrali e il desiderio per l’eternità, dopo l’interlocuzione con la divinità e la sua spiritualità: infine combaciavano come nella scultura di terracotta, tutto tornava al suo posto…