Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Peppe Del Grande, 104 anni, scomparso nel mese di settembre. L’ultimo pescatore del fiume Aterno nell’ epopea della sua narrazione: “ le anguille si prendevano con i denti, scivolavano tra le mani…”; imprese lungo il fiume: “con il pescato si viveva, si scambiava con il baratto…”; narrazioni quasi da poema epico : “ di notte a caccia di gamberi, con le lanterne si camminava lungo il fiume, uscivano dalle buche, si prendevano perché restavano immobilizzati, a secchi venivano raccolti, si vendevano per sostenere la famiglia contadina…”. E poi il mito del fiume Aterno: “quell’acqua si beveva…”. La depressione geografica del fiume Aterno nella Media valle della Conca aquilana, il ponte in pietra di Campana (frazione di Fagnano), ne segna il confine, la frontiera, e oltre, il fiume “scava”, entra nel fondovalle, si insinua, selvaggio, inquieto nella sua calma fuori dal tempo. Faglie, fratture, morfologicamente l’Aterno segna un paesaggio aspro e a tratti poco accessibile lungo le rive. Habitat e geomorfologia scoscesi, boschi e pianori coltivi un tempo, oggi abbandonati. Lungo il fiume i rilievi calcarei, mura con pietre a secco di contenimento dei terrazzamenti coltivati (la terra si portava lì con le ceste), la natura che poi si è ripresa quello che le apparteneva. E la pesca, una micro attività, economia di scambio e di sussistenza, reti e manufatti inventati ma determinanti, tecniche di pesca applicate ed efficaci quasi si sfogliasse un manuale da consultare, ma sappiamo che non esiste. Ruelle, barbi, anguille, gamberi e “sgueli”, serpi d’acqua e bisce. I pesci uscivano dalle buche la notte, si sbarrava il corso d’acqua con le pietre, ma il fiume comunque scorreva e, in quell’unico passaggio, si ancorava “l’orteglio”: una rete a forma di imbuto con la bocca in ferro circolare o canne piegate: i pesci lì finivano. Dove c’era la corrente si trovavano i gamberi, e d’estate, migravano in quelle zone del fiume, vivevano nell’acqua bassa, in corrispondenza della riva che risalivano. “L’orteglio” rimaneva tutta la notte, la mattina si ritirava il pescato. Le sorgenti “allattavano” l’Aterno, le colonie di gamberi si riunivano nella acqua corrente soprattutto dove il fiume, appunto, veniva “allattato”. La “vada”, manufatto costruito con una canna piegata a semicerchio, oppure si utilizzava un filo di ferro, e annodata la “vada” con una lunga rete conica finale. Si portava tenuta in mano dentro il fiume, immersa nell’acqua, si camminava per trovare le piccole colonie di pesci. Poi il “tramaglio”, il “falcone”, oppure si pescava con mani dentro le buche della riva. Il “tramaglio”, la rete da pesca, aveva diverse misure, si allungava fino alle due rive del fiume, lo sbarrava, l’altezza variava da un metro a un metro e mezzo. Con il “tramaglio si riunivano le “compagnie” cioè diverse persone che scendevano nel fiume. Due fissavano le reti sulle due rive, attaccate ai rami degli alberi. I galleggianti mantenevano la rete sul pelo dell’acqua, mentre i piombi la facevano scendere sul fondo del fiume. Poi, a monte e a valle dello sbarramento le “compagnie” iniziavano la “battuta”. I pesci venivano “battuti”, si allontanavano ma in direzione della rete e infine tra le maglie, diverse e incrociate tra loro. La rete si collocava dove l’acqua era ferma, un luogo pulito del fiume. Tre o quattro persone, da circa 70, 100 metri, in linea tra loro, battevano l’acqua. Si diceva che il “tramaglio” lo possedevano i “Signori”. I contadini pescavano con le mani. La pesca nel fiume Aterno era un’economia di autoconsumo, di scambio, barato quindi. I gamberi venivano acquistati da un grossista di Popoli. Le trote si “accarezzavano” sotto i massi nel letto del fiume, sostavano nella corrente, si sfioravano prima, e poi le prendevi con le mani, serrandole. Il “falcone” è una rete di circa quattro metri quadrati, si avvolgeva alla spalla e si lanciava dentro il fiume. La rete si apriva con i piombi ai lati, si allargava in aria, stesa, scendeva in acqua sui pesci, e poi si ritirava con la corda tenuta dalla persona. Era un’operazione veloce, si camminava dentro il fiume per centinaia di metri con il “falcone”. I pesci si spingevano in un luogo ideale del fiume. Anche per questo tipo di pesca si partecipava con la “battuta”, la pesca collettiva. Il” bilancino” era tenuto da un’asta di legno e, nell’estremità, due archi in ferro che sostenevano la rete. Dalla riva si calava il “bilancino” in acqua. I pesci si avvicinavano e si ritirava infine. IL “Falcone” era “come la mantellina del pastore”. Si viveva di pesca, i pesci si “acconciavano con il sale”, si tagliavano a metà ma bisognava togliere la pelle. Con la “lampa” si prendevano le anguille e i capitoni,” piegati con tutto il corpo sulla riva, ma le mani non bastavano dentro le buche, bisognava metterle tra i denti, altrimenti sgusciavano via”. Gli “sgueli” erano prelibati, “carne bianca”. Si pescava d’estate e, d’inverno, si mangiava il pesce conservato.