Fotografia Vincenzo Battista.

Per la forma singolare e il comparire quasi all’improvviso nei boschi e nei prati, i funghi sin dai tempi più antichi, sono stati oggetto d’interesse sia per i fini alimentari, che per le curiosità che suscitavano.
Queste la versione di una leggenda tramandataci dallo scrittore greco Pausania (II sec. d.C.).
“Secondo la mitologia l’eroe Perseo, dopo un lungo ed estenuante viaggio, stanco e assetato, si poté ristorare con l’acqua raccolta nel cappello di un fungo. Decise allora di fondare in quel luogo una nuova capitale e di chiamarla Micene (mykés fungo in greco), dando così vita a una delle maggiori civiltà del passato, la “micenea”.

Il simbolo di vita rappresentato dal fungo nella leggenda Greca, diviene anche simbolo di morte nella civiltà Romana.

“Tra le piante che è rischioso mangiare, mi sembra giusto mettere anche i boleti: essi costituiscono innegabilmente un alimento squisito, ma li ha posti sotto accusa un fatto enorme nella sua esemplarità: l’avvelenamento, compiuto per loro tramite, dell’imperatore Tìberio Claudio da parte della moglie Agrippina, che con tale atto diede al mondo, e innanzitutto a se stessa, un altro veleno, il proprio figlio Nerone”.

Così Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia sintetizza il suo pensiero sulla bontà e la pericolosità dei funghi, di quel genere di funghi che chiama boleti.

Oggi, chiunque sia un poco esperto sa che col termine boletus si definiscono quelli che volgarmente chiamiamo porcini (Boletus edulis ecc.), che infatti i Romani chiamavano suilli (diminutivo di sus, maiale), usando la stessa metafora animale. Del resto sappiamo che difficilmente Agrippina avrebbe potuto uccidere l’imperatore Claudio con dei porcini “malefici” (come il Boletus Satanas), tossici ma non mortali, specie dopo la bollitura che era usuale nella preparazione dei funghi in quel tempo. In realtà fra Greci e Romani, e poi ancora per secoli fino alla classificazione botanica moderna, con boleti si indicavano soprattutto quei funghi che oggi conosciamo col nome di Amanite, tra le quali figurano due noti, per così dire, estremi opposti: quella caesarea, l’ovolo buono, e quella phalloides, mortalmente velenosa. E sarà stata forse proprio quest’ultima che Agrippina utilizzò per il suo delitto. Nonostante la diffidenza di Plinio per i “boleti’; sappiamo tuttavia che la passione per i funghi solleticava il palato di molti ghiottoni, prima e dopo Nerone, come tramanda il celebre Apicio nel suo De re coquinaria.

Oltre a quello alimentare i funghi prevedono altri usi in medicina e non solo. Sempre Plinio ricorda le proprietà terapeutiche dei porcini (suilli) che venivano importati dalla lontana Bitinia (nell’odierna Turchia), essiccati appesi in filze. Si pensava che servissero, tra l’altro, a ridurre verruche e lentiggini.
Certi funghi venivano persino usati, fin dalle epoche più remote, come esca per accendere il fuoco; ce lo ricorda anche l’equipaggiamento di Oetzi, l’uomo mummificato trovato nel ghiacciaio del Similaun, vissuto circa 5.000 anni fa.
Ma l’uso più “stupefacente” di certi funghi, anch’esso noto all’uomo fin dalle epoche più remote e a svariate latitudini, è senz’altro quello legato alla loro capacità allucinogena. L’Amanita muscaria, dal caratteristico cappello rosso puntinato di bianco, è il più noto rappresentante di questi funghi che alterano lo stato di coscienza e che vengono anche definiti “enteogeni’; cioè che rendono “divinamente ispirati” chi li assume.
Un certo filone di studi porrebbe in relazione proprio le sostanze allucinogene prodotte da questi funghi con l’elemento vegetale che, secondo la Bibbia, avrebbe dato la “conoscenza del bene e del male’.

Un curioso affresco nella cappella medievale (XII secolo) di Plaincourault (lndre, Francia) raffigura una scena della tentazione in cui Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre stanno ai lati dell’albero della conoscenza del bene e del male, con tanto di serpente. Stranamente l’albero ha la foggia di un grande fungo con cappello rosso puntinato di bianco, dal gambo del quale si diramano quattro rami simili al tronco centrale.
Gli storici dell’arte sostengono che si tratta di una maldestra raffigurazione di un albero del Paradiso, derivata dalla stilizzazione di un pino italico, ma per alcuni studiosi di discipline esoteriche e di etnomicologia non c’è dubbio: il pittore ha raffigurato una gigantesca Amanita muscaria, come a certificare la presenza (e il ruolo) di un fungo enteogeno già nella prima pagina della storia dell’umanità. (Taccuini Gastrosofici rivista di cultura alimentare).