Il 10 giugno non si lavorano le campagne…San Massimo levita e la frattura emozionale del paesaggio medioevale reso fino a noi.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

E se Buccio di Ranallo (seconda metà del XIV secolo) mette in guardia chi lavora i campi nel giorno della festa di San Massimo “…che era homo (l’uomo) affandato (affannato): chi cobelli (qualcosa) facevavi, era scomonicato…”, lui, non può far altro che cristallizzare nella sua narrativa il paesaggio medioevale della Conca Aquila, scrivere di un precedente che arriva fino a noi, fermo proposito e poi non produttivo quel giorno, nelle economie della stagione, ma reso e spalmato invece nello spirito di appartenenza, condiviso, intorno al compatrono della città nascente Aquila. Le reliquie dalla cattedrale di Forcona furono portate alla cattedrale a lui dedicata e a San Giorgio. Ma le campagne aquilane, dall’Alto Aterno e fino giù a sud dove il fiume Aterno scompare e imbocca le falesie a strapiombo, trovano e “guardano” specularmente un sito, centrale, strategico, quasi lo cercassero, una sorta di background, un evento di formazione culturale, lo sviluppo di un processo che lì ha inizio e fine: la dolina del monte Circolo, dentro un “percorso” che sull’orlo del precipizio si raggiunge dalle spalle dentro il bosco : la montagna ha lì una frattura, non solo legata al trek, ma emerge dalla memoria del lontano passato, da quegli elementi permanenti e distintivi, focali nel paesaggio naturale del martire Massimo fin giù nella profonda rupe, dove una croce segna il punto, indicato dalla tradizione orale, appena sopra il paese di Fossa.Il corpo fu ritrovato ed “ivi incalzato dalle pietre lanciategli addosso”, sito del martirio, “uno scoglio semicircolare” punto di riferimento emozionale per la comunità locale, nella bocca appunto di monte Circolo. È il 251, secondo alcune fonti. “Sotto l’Imperatore Decio (249 -51). Il corpo, dopo tortura, viene gettato. San Massimo Levita, “Il principale protettore aquilano” diranno più tardi alcune donne anziane che si chinano sui gradini, ignorano tutto quello che è intorno a loro, lasciano i fiori sul sagrato che lì resteranno in questo straordinario omaggio fuori copione alla Cattedrale di “Piedi piazza” a lui dedicata che non c’è, e oggi  tempio senza più religione, senza un orizzonte comune, desolante bocca di un vulcano ( dodici anni dal sisma) dalle sole pareti e la facciata come una muta quinta teatrale, ma valore collettivo. Quel valore, bisogna viceversa andarlo a trovare in G.C. Bedeschini, prima metà del XVII sec.  l’olio su tela – Museo Munda – L’Aquila. Rappresenta San Massimo che sostiene la città fortificata sulla collina con case a torre, porta di accesso armata della cortina, torre rompitratta, monasteri, terre coltive e giardini , campanili cistercensi, e forse una torre – campanile apicale con merlature che qualcuno ipotizza sia la Cattedrale ( ma circondata dalla vegetazione), due uomini con bisaccia e bastone guadagnano un tracciato in declivio, il tutto  in una pittura barocca con fondo nero dal sapore caravaggesco, nel ritratto non esaltativo ma contemplativo nel volto e nell’elegante abbigliamento vescovile di broccato rosso che indossa San Massimo, ricamato con motivi floreali sinuosi, cornucopie classiche a losanga bianchi e amaranto , merletti finemente ricamati nella sottoveste in un volto tranquillizzante, sereno, del giovane martire aquilano con la lunga palma ( simbolo del martirio) nera bruciata nella mano sinistra : “I Santi non sono superuomini, né sono nati perfetti . Sono come noi, come ognuno di noi, sono persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze.” Papa Francesco.