La notte del 5 marzo 1431.

martedì 5 marzo 2013 05:58

 

di Vincenzo Battista 

Nell’invernale staggione del 1431, il vasto laco Fucino, da cui si bagna Ortucchio, gelossi universalmente: cosiche da una riva all’altra opposta era fuori di pericolo viaggiarvi colle cariche vetture, non che a piedi ed a cavallo. E le lagune intorno a Venezia – sempre in quell’anno – in tal guisa si giacciarono, che sopra esse, come sopra terra ferma. . . “. E’ questa una prima sommaria descrizione del sacerdote Gaetan Antonio De Benedictis, apparsa nell’opuscolo “Glorie di Sant’ Orante” pubblicato nel 1756, di una mutazione ambientale come non si era mai vista a memoria d’uomo, una sorta di ritorno all’era glaciale, così si presentava agli occhi dei monaci calabresi “che menano vita eremitica” in viaggio in questi luoghi tetri, dal sapore primordiale, giunti nel borgo infine, ultima soluzione al grande male, come per quel Guglielmo da Baskerville il francescano, e Adso, il novizio benedettino al suo seguito, descritti nell’opera “In nome della rosa”.

Così, con questa visione apocalittica, i monaci calabresi sono giunti nel borgo di Ortucchio, chiamato “l’isola del lago” poiché le acque oltrepassavano per oltre due miglia questo paese, nei tempi passati, ma adesso, in questa cronaca del viaggio, è una lastra di ghiaccio che si apprestano ad attraversare, infinita, che può cedere e inghiottire animali, cose e monaci.

La loro missione: liberare dal diavolo e “restituire a Dio” una comunità prigioniera, isolata e dimenticata dagli uomini.

La storia racconta poi, che alla partenza dei monaci, dopo la missione, Sant’Orante(chiamato così dalla gente di Ortucchio), colpito da febbre quartana, fu costretto a rimanere in paese, nellachiesa di Santa Maria. Viveva di elemosine, dormiva sul pavimento, “Elesse un tugurio dove menava la vita da incognito, riposava sopra la nuda terra“. Un giorno tornò più tardi in chiesa “perché la febbre si rese più ardente, e si era gonfiato interamente nel corpo” ma trovò la porta sbarrata dal diavolo, racconta una versione della tradizione orale del luogo. Si inginocchiò sopra i tralci secchi di vite, era la notte del 5 marzo 1431, restò lì all’aperto. Le campane iniziarono a suonare, la gente uscì dalle case, e quando lo trovarono morto assiderato aveva ancora quella posizione di preghiera, ma i tralci erano sbocciati con le foglie e i grappoli d’uva maturati miracolosamente. Fu allora chiamato Sant’Orante e divenne protettore del borgo.

Quando poi, fattosi giorno si trovò il cadavere – scrive A. Di Pietro nel 1869 – inginocchiato in quella maniera in cui era spirato; quando si vide il fascio della sarmenta che non più secco, ma avea novellamente prodotto colle foglie, grappoli di uva bellissima: allora si avvivò l’entusiasmo del popolo che dopo avergli celebrati solenni funerali, lo seppellì in quel tempio che da vivo gli aveva reso ricovero“.

Resta, nell’immaginario collettivo, una coppa di legno appartenente al santo con rilievi in argento. Una reliquia, miracolosa, il testamento della sua santità raccontano, il calice con dentro il suo “liquore” che così è descritto da Antonio De Benedictis: ” Che colla bevanda di vino immerso nella sovra descritta di una tazza, si son resi sani molti infermi di cardialgie e passioni di stomaco, per grazia speziolissima donata dall’Ottimo Sommo Dio al suoi santo Servo, che fece in vita uso della Tazza col cibar in parsimonia e col prendervi la cotidiana bevanda dell’acqua“.

Il santo viene festeggiato il 5 marzo, e come vuole la tradizione si continua a distribuire ai fedeli il vino benedetto dei grappoli d’uva che ritroviamo nel frammento di un fregio funerario reimpiegato e incassato nella parete sud della chiesa a lui dedicata: un “logo”, forse, della santità del taumaturgo che ha esorcizzato il male, ha liberato dal diavolo, ha sciolto il ghiaccio dalle acque e le angosce dei pescatori nell’isola del Santo Graal.