“Ju lupe” di monte Corvo che non dorme mai… Gran Sasso d’Italia.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Il lupo trotta, con gli occhi frontali da cacciatore il suo “radiorilevatore”, come è nell’uomo, non perde la ragione nella presunta sindrome psichica della “ricerca” del male (attribuito da noi a lui), ma che non conosce, poiché vuole solo vivere e sfamarsi, certo, straziare le sue prede da carnivoro, in quel suo “essere perfetto”.

Combatte il lupo, non odia. Homo omini lupus (Asinara di Plauto, II. 4. 88. 206 -211 a. C.) che significa “l’uomo è un lupo per l’uomo” dinamicamente il suo rovescio, la natura così rappresentata è “servita” nell’uomo che vorrebbe vivere (spesso lo sappiamo) senza legge (nel suo più intimo istinto), sopraffare, eliminare chi lo danneggia, distruggere chi si pone ad ostacolarlo per raggiungere, in definitiva, i suoi desideri, i suoi obbiettivi. Gli uomini, appunto, essi stessi in conflitto “si combattono”, nell’immaginario per usare un eufemismo, per “sopravvivere”, appunto, come i lupi, incarnano, nell’allegoria diffusa la belva famelica.

Orecchie corte, erette, bruno rossiccio e grigiastro, può coprire distanze fino a 80 chilometri nella dorsale appenninica centrale per poi essere incuriosito dal mondo umano che osserva, ma non sapremo mai quello che ne pensa. Dal muso affusolato, possente muscolatura, gira intorno alle arnie d’inverno, le orme si sovrappongono in fila indiana. E dentro l’antro della sua tana, che protegge i cuccioli, dalla profondità della cavità i suoi occhi gialli brillano minacciosi nell’oscurità: l’elaborazione taumaturgica delle nostre paure…

Cacciatore sociale, adattabilità e lunga sopravvivenza per mesi, quando le prede scarseggiano. Si sposta in piccolo trotto, attacca gli erbivori ai garretti, nelle cosce o sul dorso con morsi implacabili, per poi cibarsi delle interiora. Segue per giorni la preda nella sua grande resistenza. Si aggira intorno ai cassonetti, nelle discariche. Digitigrado: quattro dita alle zampe posteriori, cinque a quelle anteriori. “Quando arriva il lupo la sera, la mattina rasserena”, dicono nella Conca aquilana. Ombroso e scostante, abitudini notturne, guardingo, dalla voracità inimmaginabile, non comparabile. “Lupo canastro, quando nascesti tu non c’era Cristo, Cristo nato, lupo legato” in un passo di una leggenda dell’Alto Aterno che vuole il lupo (il demone) sottomesso con nascita di Gesù sulla terra.

Elusività e ferocia, di istinto superiore, misterioso animale leggendario (San Franco di Assergi colloquia con lui e lo redime: restituisce poi il neonato che ha rapito ai boscaioli di Pizzo Cefalone). Soccombe solo alle insidie più subdole: tagliole, bocconi avvelenati, lacci. Dalle azioni rocambolesche: entra in una stalla, sale su un pensile, prova a nascondersi, ruota su se stesso, e poi esce con la coda tra le zampe dalla finestra, quando infine sorpreso: una testimonianza nei dintorni dell’Aquila. Si dice che il lupo sappia imitare il verso dell’anatra per avvicinarsi e prenderle, che i corvi sono i loro ricognitori (droni) pagati poi con i resti delle prede.

Bovini, ovini e caprini il suo banchetto alimentare privilegiato. Solleva le labbra, mostra i denti, sordo il brontolio, ringhia: attenzione non parliamo dell’uomo…

Crudele e sanguinario nelle fiabe, irrazionale ai nostri occhi, poiché “scanna” decine di armenti per poi cibarsi di un solo capo di bestiame. L’ululato raggela per la paura, ma dovrebbe emozionare nell’udirlo, perché quel suono arcano, profondo, è portatore di miti mai estinti da millenni, emblema poi di essere crudele e sanguinario: il lupo mannaro. Metà uomo e metà lupo ma che finalmente s’incontrano, attratti l’uno dall’altro, uguali in quasi tutto come si è detto. Zoologia e antropologia in coagulo: nel laboratorio nasce così da una formula straordinaria divinatoria che partorisce un essere superiore. Maledetto, bestia del plenilunio nelle tradizioni popolari raggelanti dei borghi del Gran Sasso che si accompagna con il vento caldo d’inverno, antropofago, si trasforma contro le proprie volontà e seppellisce pezzi, carne, per poi dissotterrarli.

Il lupo risveglia la paura abbietta, natura e le realtà oscure si uniscono nel regno del male, dal fondo dell’abisso risalgono e sostano davanti alle porte delle case, passano i lupi minacciosi nelle strade deserte, gli uomini pertanto così evocano energie istintuali mai sopite insieme al desiderio di riconciliarsi, con il lupo, che altro non è la nostra anima animale che scuote l’io.

L’ora del lupo, l’epiteto era dei viaggiatori sulla “Via degli Abruzzi”, contro gli incantesimi, gli agguati, gli spiriti emissari e spettrali, per proteggersi dagli infausti presagi nella foresta attraversata per quindici giorni senza vedere il sole.

Ma un altro lupo, “Ju lupe” ante litteram, attende, annusa e vigila sulla valle del Chiarino, si muove guardingo nel Gran Sasso d’Italia. Nella metamorfosi che ha subito, accoglie gli escursionisti nel rifugio “Fioretti” che gestisce. Nelle quinte di monte Corvo, il palcoscenico del rifugio tagliato dall’ombra delle Malecoste, come un rasoio, resiste, fino al crepuscolo, insieme alle divinità che proteggono la montagna. Prepara il cibo “Ju lupe” e da Arischia, sale, in montagna, con o senza innevamento per aprire il rifugio: una missione; ma “Ju lupe” del Chiarino, lui, che non dorme mai, basta leggere il diario degli ospiti, accoglie chiunque, offre gli assaggi e prepara una sorta di cibo rituale, in quella tana, anche con erbe aromatiche, infusi, decotti, liquori e pozioni magiche misteriose e impronunciabili nell’idioma locale. Il “suo ritiro” è, pertanto, un presidio culturale, un impegno nei confronti dell’ambiente del Gran Sasso d’Italia e forse lo sa, un avamposto umano, un obbiettivo da raggiungere per alcuni ma non per molti, ed attraversare, oltre, le selle e i brecciaci geologici di cui è densa l’area, in un contesto paesaggistico primitivo e cerniera, punto d’incontro di uno scenario montano essenziale antropico rarefatto: un Bene, del Gran Sasso d’Italia, se riuscirà mai a contenere le spinte dei “turisti…” e se vedi poi come sono attrezzati. Tracciato, un tempo, il Chiarino, nella narrazione di pellegrini, mercanti, soldati, gente comune che lo attraversava per le deboli economie montane, dei taglialegna, carbonai e pastori: sfruttavano le risorse della natura senza abusarne, ben attenti a mantenere il bosco del Chiarino per rigenerarlo, da cui traevano forme di sussistenza sociale, nella continuità della povertà e nella solitudine del loro tempo…

Domenico Picco è il gestore del rifugio “D. Fioretti” – Chiarino.

I disegni della scuola media di Montereale, anno 1989.

Il murales del lupo sulla facciata di una casa.