Pianse, si disperò, abbracciò i rami che fiorirono.

giovedì 11 aprile 2013 15:55

di Vincenzo Battista

Il mito prende la parola. Le sue vicende e il suo destino, nella sorte e nella fatalità del dolore e della morte, sono rappresentate e vegetano nelle cose viventi: piante, animali e uomini che invocano, evocano e celebrano, infine, la narrazione, la leggenda, la fiaba, e soprattutto ilmodello. “L’ideale” da percepire e prendere per gli stessi uomini, da assumere su se stessi, come memoria e segno comportamentale, una sorta di pedagogia della vita.

Accade allora che il mito del mandorlo in fiore, che annuncia la primavera, non sia altro che una struggente e commossa storia d’amore sullo sfondo di uno scenario da tragedia, da mitologia greca. Accade, narrano gli antichi ellenisti, che Fillide, principessa della Tracia, incontrò un giorno Acamante, figlio di Teseo, sbarcato nel suo regno per rifornirsi di viveri durante la navigazione verso Troia. I due s’innamorarono perdutamente. Acamante proseguì la missione con gli Achei per combattere nella guerra di Troia e la giovane principessa restò lì, in attesa che terminasse il conflitto e tornasse. Trascorsi dieci anni, senza notizie di Acamante, Fillide si lasciò morire per la disperazione. La dea Atena, che aveva assistito a tutto, colpita da questa singolare storia, decise di trasformare la principessa in uno splendido albero di mandorlo. Ma Acamante tornò, sopravvissuto alle battaglie, e quando seppe che Fillide era stata mutata in una pianta, la cercò e la trovò sotto forma di un grandioso albero, pianse disperato, e infine non seppe far altro che abbracciare i rami, che improvvisamente ricambiarono le carezze, narra la leggenda, in fiori, prorompenti gemme, all’istante sbocciate, inaspettate corolle bianche e rosa di fiori senza foglie, incontenibili, che germogliarono nell’abbraccio (rappresentato in questo modo dai pittori inglesi Preraffaelliti, intorno al 1848, e interpreti della società vittoriana con la loro pittura ispirata alla natura e al mito).

Così, sempre, da tempo immemorabile, ogni anno i fiori di mandorlo (importato dai Fenici nelle prime colonie in Italia) annunciano la primavera. Simbolo quindi del dolore umano, ma anche di speranza, fecondità di vita. Nel mito di Cibele, “gli Antichi dei”, ben conoscevano le pulsioni inferiori dell’uomo, ma le utilizzavano trasfigurandole, sublimandole, a volte, ma spesso dando loro una diversa lettura nel precipizio delle passioni senza ritorno, come appunto per il mandorlo destato dal suo sonno invernale che fiorisce dal sangue della madre degli dei, mentre il suo frutto, nel Medioevo e nel Rinascimento, dalla forma marcatamente simbolica, la mandorla appunto, circondava Cristo e la Vergine, scolpita nella pietra, in bassorilievo.

Nella pittura rappresenta il significato della natura divina, che è racchiusa in quella umana, vive la sua dimensione ultraterrena protetta però dalla “cornice”, appunto la mandorla: una sorta di scrigno sacro, il perimetro inaccessibile, dove intorno vive la vita materiale e dentro Cristo, come nell’affresco del 1437 (uno degli esempi più importanti in Abruzzo), bottega di Antonio da Atri dipinto nel luogo denominato “Cisterna”, presso il Museo capitolare di Atri (Te).

Colunnella (I sec. d. C.) parlando del mandorlo e della sua coltivazione ricorda come esso sia il primo albero a fiorire in primavera, rilevando la sua utilità per le api, mentre Plinio (79 d. C.) descrive l’olio ricavato dal frutto come detergente per la pelle, mescolato al miele, per rimuovere le macchie dal viso.

Nell’alternarsi naturale delle stagioni, poi, il mandorlo, indicatore biologico di mutamenti, è già da qualche settimana fiorito. E’ inarrestabile, nonostante le anomale temperature variabili nel paesaggio invernale, che comunque, come vuole il mito, sopra ogni cosa, non ne hanno modificato la fioritura. Il suo “abbraccio”, anche davanti agli sconvolgimenti ambientali, frequenti, i delicati equilibri di animali e piante, il mandorlo e la sua conchiglia protettiva, resteranno, anche da queste gelide parti.