L’Aquila e il Gran Sasso per un dialogo. Il Parco letterario del primo esploratore del Gran Sasso d’Italia: Francesco dé Marchi.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Le immagini tutelate dal copyright sui diritti d’autore.

 Antonio Canova (1757- 1822), il massimo esponente del Neoclassicismo in Europa, impegnato con ricche committenze e nelle opere d’arte apicali da lui realizzate per le corti europee, dedica un busto a Francesco dé Marchi (Bologna, 1504 – L’Aquila, 15 febbraio 1576) capitano, alpinista, speleologo e ingegnere italiano nel campo militare, ma soprattutto ricordato a L’Aquila per aver compiuto la prima scalata ufficiale della cima maggiore del Gran Sasso d’Italia (Corno Grande). Tale opera tuttavia resta un enigma con scarni riferimenti: non è tracciata per ora, nulla è noto sulla genesi dell’opera datata 1813 – 1814 ca. (gesso, 76x70x37cm Bassano del Grappa, museo civico). Sappiamo che il busto proviene dall’atelier romano di Canova, per poi spostarsi a Possagno (paese natale) fin dal 1829. Guardiamo l’opera per un istante. Dall’argilla iniziale modellata nel busto da Canova (il ritratto ricavato da medaglioni commemorativi dell’epoca), al gesso in forma liquida che la ricopriva. Solidificata così, la bottega del Canova applicava i repère (che possiamo vedere nella scultura in gesso), chiodini in bronzo simmetrici tra loro e sporgenti, per avere una misura poi con l’ausilio di un compasso, quando si procedeva a scolpire il marmo: una sorta di mappatura, una misurazione degli spazi che non consentiva errori nelle proporzioni. Il gesso e il marmo, affiancati tra loro nell’opera finale che si realizzava con il martello prima, e poi con il cesello e scalpelli sempre più piccoli veniva fuori, alla luce. Il busto ritratto da Canova di Francesco dé Marchi, mostra un personaggio ottimista, quasi nell’atto di compiacersi, con le sopracciglia leggermente arcate, sembra che stia per dire qualcosa, i capelli ricci corti e allungati a ciocche, baffi e barba curatissima sigillo di nobiltà e censo. L’armatura dal collarino, leggera, a contatto della pelle come si addice agli imperatori o ai grandi condottieri, a fascioni poi intorno al tronco e alle spalle a maggior protezione. Infine il busto sembra leggermente inclinarsi nell’atto di un ossequio, poiché conoscendo Antonio Canova, sappiamo che nulla è lasciato alla libera interpretazione, ma a una razionale ragione plastica della scultura che nell’Illuminismo deve “dialogare” …. Torniamo al Gran Sasso. La Cronaca dell’Ascensione.“…così andassimo d’Aggosto l’anno 1573. È il 19 di Agosto…”. Monte Corno così lo chiama dé Marchi, l’ultimo attacco per la cima il 19 agosto del 1573. Insieme a lui Cesare Schiafinato milanese, a Diomede dell’Aquila e ai cacciatori di camosci (“camozze”) Francesco Di Domenico, Simone Di Giulio e Giovanpietro di Assergi, pregati e più volte sollecitati ad aprirgli la Via Normale e il passante della Valle dei Ginepri di Corno Grande. I camosci venivano inseguiti sulle balze del Gran Sasso, si arrampicavano ma poi si arrestavano non potendo proseguire. I cacciatori con lunghe aste in legno li spingevano nei dirupi, precipitavano e recuperati, la carne rimaneva dentro la pelle dura e non fuoriusciva: si vendeva, mentre la stessa pelle conciata e cucita, impermeabile, veniva utilizzata come contenitore di vino. Ancora dé Marchi:” Un monte che si dice Corno nel quale monte vi è una aria così sottilissima, e così vi è freddo, così m’hanno contati molti homini del Paese che vi sono stati sopra, e io alle radici de esso son stato più volte del che considerai il sito al meglio ch‘io puoti.”.

La descrizione continua nei fuochi accesi intorno alle tende dei pastori sull’Altopiano di Campo Imperatore, la notte tutto il comprensorio brillava animato da migliaia e migliaia di armenti e uomini che si prestavano il fuoco, aggiungiamo noi non doveva spegnersi mai (così fino al recente passato), un bene primario per gli accampamenti, per la trasformazione dei prodotti caseari e per scaldarsi di notte. Basterebbe questo, ma ce n’é molto ancora nella narrazione dell’Ascensione, a designare il Parco letterario e intitolarlo a Francesco dé Marchi e al Gran Sasso d’Italia: una spinta pedagogica per riordinare l’area geografica presa d’assalto e aggredita nella sua fragilità di ecosistema, conferirgli valore in un Bene culturale variabile complesso, progettare in definitiva la memoria storica motore per la creatività e per l’innovazione di come si può fruire appunto un Bene ambientale, oltre questa borbonica – per usare un eufemismo – terra di relazioni dove nulla o poco si muove…  il paesaggio, appartenenza e contesto quindi lo abbiamo visto, in una visione, un orizzonte di saperi umanistici, dé Marchi ci offre questa “frontiera”, integrante in una latitudine che pulsa a nostra insaputa, unicità da sottolineare negli aspetti antropologici, ambientali inseparabili e materia di studio, ma che forse possono far solo “paura…”