Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Tutti gli elementi costitutivi della scacchiera mobile, dinamica, comunicativa e mediatica prende forma nella montagna ponte tra la terra e il cielo, sono in linea, adesso, qui, dopo ore di cammino. L’ultimo di questi elementi, povero, sconsolante a vederlo per gli sguardi meno attenti, ma viceversa identitario nella coscienza collettiva, psicologico, dalle radici socioculturali, è una sorta di sacrario devozionale, battuto dai venti, dalle tempeste di neve, dalle slavine e lo vedremo: sito terminale di una vita tanto epica e di allori post mortem, quanto di solitudine primitiva nell’eremitismo di non ritorno destrutturante sulla persona, raminga e visionaria patrimonio tuttavia di una unicità della Conca Aquilana dentro il corpo di un Genius loci, e di una piccola patria (Assergi). Le identità territoriali e antropogeografiche sono state trascinate nei secoli passati e giunte fino a noi. Ubicato, il sito, dove nessuna ragione razionale potrebbe mai ipotizzare, in uno dei luoghi più impervi e impenetrabile dei contrafforti nel Gran Sasso d’Italia, versante Occidentale. La grotta di San Franco (vissuto nella seconda metà del sec. XII) nel ventre della montagna in una concrezione rocciosa orizzontale e sommitale la montagna di Pizzo Cefalone, adesso, qui, davanti a noi (1821 m. S.l.m.) si apre lo squarcio carsico in una fenditura alla base di una falesia, defilata e nascosta: un grido nel silenzio, un cuneo, una spelonca armata all’ingresso da muri in pietra e calce per proteggere la cavità, un sarcofago sembra penetrante nella roccia dove luì trascorse, secondo l’agiografia che ne esalta la personalità, tessendovi intorno miti e leggende, l’ultimo tratto della sua vita, poi la morte e gli eventi soprannaturali propedeutici, nella grotta del Cefalone divenuta un social, un internet testuale ante litteram.

Ma poi, non sapremo mai se l’eremita Pietro da Morrone, in viaggio verso il Soglio Pontificio nella Basilica di Collemaggio, divenuto papa con il nome di Celestino V, abbia rivolto lo sguardo a Pizzo Cefalone, avrà pensato a San Franco e la sua fama di santità taumaturgica diffusasi su tutto il contado aquilano e oltre nei territori geografici.  San Franco come fra Pietro nelle grotte del Morrone, nelle spelonche più inaccessibili, e in quell’idea dell’uomo dalla personalità decisa, determinata nelle scelte anche dolorose.

Il versante del Gran Sasso, da Monte San Franco a Pizzo Cefalone e la Portella. Pomi selvatici, erbe medicamentose, miele, frane e slavine che si distaccano e lui, San Franco, interviene; il lupo, per sua intercessione, ammansito, restituisce il neonato ai boscaioli: messaggio subliminale, mediatico, plastico delle paure del Medioevo, poiché vuole il “male” allontanato, la foresta e le terre alte del Gran Sasso sono rese così immuni. Dialoga con gli orsi, tocca la pietra e ne scaturisce l’acqua, pertanto è il santo eremita peregrinante senza meta di una connotazione d’interesse ambientale, etologico, antropologico, ante litteram quasi fosse lui che s’interessi alla scienza della terra e alle sue componenti primarie. La grotta di Pizzo Cefalone. Alcuni frammenti di tavole in legno, forse la paratia dell’ingresso; un altare di pietre devozionale con ex voto, il diario delle visite e le “richieste” al Santo, una roccia orizzontale come una sorta di Mensa e la profondità della grotta che nel fondale si chiude con l’acqua che percola, nicchie naturali con sopra i segni di compartecipazione di chi arrivi fin lì, di avvicinamento a una “visione” mai estinta.

E tutt’intorno al totem carsico della grotta e ai pinnacoli calcarei che si innalzano, salendo i ripidi canalini brecciati che si allargano e si stringono sulle pareti ai lati quasi fossero sculture monumentali, e alla sommità le “Aie” di San Franco, terrazzamenti inclinati  e declinanti erbosi, cosi denominati. Prati pascoli sotto le falesie dello sbarramento geologico che sale su Pizzo Cefalone, le capanne monocellulari ogivali crollate, in pietra a secco, rifugio dei pastori spinti su quei pascoli dalla Portella. Intorno alla capanna a Tholos, scavata nel suolo e protetta dall’avvallamento della dolina, riposava e stazionava il gregge. Infine, per compendiare e ricapitolare tutti gli elementi costitutivi della scacchiera mobile sul mito di San Franco e sul culto della montagna, dentro un canale detritico che scende e si incunea a valle, una polla d’acqua, sorgiva in un habitat arido, timidamente scorre, quello sì un accadimento della natura in quota, si insinua nel suolo dilavato di pietre, fino a scomparire. Quest’acqua è il simbolo della resistenza, di un’azione, che a noi piace pensare, ha conquistato San Franco nell’eremo del suo saio…