Prima delle terre del Fucino.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Mostra documentaria: “Memoria d’acqua, segni di terra”. Provincia dell’Aquila.

L’importanza della pesca nel lago Fucino, che aveva in Avezzano il luogo di commercio e consumo, è documentata anche dagli antichi statuti del XVI secolo di questa città. Al titolo IX infatti si rileva sulla Vendita del pesce: “che ogni qualità di pesce sia venduta a rotolo nella piazza di Avezzano al prezzo, che verràˆ fissato dai Catapani. Coloro che si rifiutassero vendere o di pescare giusta il prezzo dei Catapani medesimi, siano tenuti pagare per ogni volta al Signore traini 1, al popolo traini 1 ed ai Baiuli grana 10.

 Egualmente, che apprezzato il pesce dai Catapani, il venditore non ardisca e né debba muoverlo dalla piazza, né allegare e dire non voglio più vendere è anzi deve in tutto e per tutto obbedire ai Catapani e procurare di vendere subito il pesce suddetto. Il contravventore paghi al Signore suddetto per ogni volta traini 1 e al popolo traini 1, 1/2 ed ai Baiuli traini 1.

 Così, se alcuno abbia venduto del pesce in qualche casa o in qualche taverna di Avezzano e delle sue pertinenze di frode del prezzo stabilito dai Catapani o in frode del peso, allora il venditore sia obbligato andare in piazza, ed ogni volta sia tenuto pagare la multa predetta. Al pescatore poi sia permesso vendere a salma ed a diecina al peso generale.

 Egualmente, se alcuno di Avezzano o delle sue pertinenze o qualche suo abitatore abbia portato a vendere il pesce fuori della terra di Avezzano e non l’abbia potuto vendere; lo stesso pesce in minor modo lo porta nella terra di Avezzano. Il contravventore sia tenuto pagare ai Baiuli per ogni volta grano 10 e al popolo traini 3”.

La terra.

Ogni casa colonica aveva a pianterreno tre magazzini per i raccolti, un ripostiglio per attrezzi, due stalle per bovini ed equini; al piano superiore una vasta cucina, quattro camere da letto ed un vano per depositi di sementi e di provviste.

La casa aveva di fianco un’aia e nel retro una stalla. Ogni coppia di fabbricati colonici, posti uno di fronte all’altro, aveva in comune un forno isolato e, simmetricamente ad esso, dalla parte opposta della strada un abbeveratoio-lavatoio in pietra da taglio di Capistrello.

Prima dell’intervento dello Stato (Riforma del 1951) l’ordinamento agrario del Fucino era basato, come scrive Ortolani, su circa 10.000 affittanze, che riguardavano complessivamente 11.000 ettari divisi in 28.000 particelle; 1261 ettari si riferivano a 55 poderi a mezzadria; su 928 ettari operavano due aziende condotte in economia…. Le particelle, con un’ampiezza media di ettari 0,34, erano spesso rappresentate da vere e proprie fettucce, larghe pochi metri e lunghe da 250 a 500 metri.

Si calcola che l’affittuario, per recarsi a coltivare i suoi terreni frazionati e sparsi, perdesse un quarto del fabbisogno di lavoro per ettaro…

Al momento della riforma, nel 1951, furono espropriati al Torlonia, a cui rimasero le acque territoriali, dietro compenso, 14000 ettari che confluirono nei 45.000 ettari totali, comprensivi delle aree vicine al Fucino, classificati comprensorio di riforma fondiaria. Nel 1954 fu promulgata una legge di valorizzazione che riguardava tutta la subregione marsicana, compresi i 163.000 ettari della Valle Roveto.

Di seguito a questa situazione continua Ortolani, espropriata tutta la terra e liquidati i contratti d’affitto si è proceduto in via preliminare alla ricomposizione fondiaria, che ha ridotto le primitive 28.000 parcelle a solo 8.800. In tal modo l’ampiezza media di questa è triplicata e i contadini hanno ottenuto la terra in porzione unica anziché in frammenti sparsi.

L’opera di bonifica definitiva della vasta area del Fucino, e il conseguente appoderamento per avviare le coltivazioni, incontrò difficoltà spesso notevoli e fu realizzata per fasi successive.

Le cronache riferiscono anche dell’opposizione dei contadini marsicani a vivere sulla terra contro i tradizionali insediamenti accentrati situati sulle alture o a mezza costa.

Una zona di 1000 ettari situata tra Luco e Trasacco venne appoderata dal Torlonia chiamando famiglie di contadini dalle Romagna, dalle Marche e dal bacino del Vomano. Furono costituiti 52 poderi.

Tra Avezzano e l’Incile 260 ettari, dopo un lavoro di scasso profondo, furono presi in uso dall’azienda Via Nuova è condotta direttamente dal Principe Torlonia.

Tra il 1884 e il 1889 furono eseguiti lavori per precostituire la possibilità di utilizzare un’ulteriore parte della superficie bonificata e Casa Torlonia individuò i criteri dello sfruttamento del fondo.

Nel 1889 erano stati dati a mezzadria 1923 ettari, 922 a colonia, 413 a corrisposta fissa e 216 condotti direttamente in economia.

Altri 7850 ettari furono concessi in fitto non ai contadini dei paesi circostanti ma a famiglie di notabili scelte comune per comune.

Ogni concessione era di 25 ettari, che questi affittuari suddividevano in pezzi da 10-20-30 coppe e subaffittavano a loro volta ai contadini locali.

La ricerca, partendo da questi dati di fatto, ha ricostruito, attraverso il racconto degli ultimi contadini e dei discendenti di quelle famiglie che furono protagoniste di quest’opera di utilizzo del latifondo Torlonia, la cultura di quelle famiglie provenienti dalla Romagna e dalle Marche, il tipo di contratti, i rapporti tra gli affittuari e i subaffittuari, gli effetti della frammentazione della proprietà; l’insufficienza economica dei piccoli poderi, la clamorosa protesta dell’11 aprile 1886 davanti il Palazzo Torlonia, le prime organizzazioni dei contadini all’inizio del Novecento e infine le condizioni dei contadini.

Se è vero quello che scrive Ignazio Silone in “Uscita di sicurezza” che nel terremoto morivano ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi, nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza…È quello della Marsica e in particolare di Avezzano rappresenta, perciò, la scomparsa di un mondo.

Il terremoto, mito ed incubo, ricordato con una drammaticità stupefatta e incredula dai testimoni che sottolineano anche la grande solidarietà umana, il 13 gennaio 1915 distrusse Avezzano, città di 9.245 abitanti.

Tutto scompare alle 7,25 di quel mattino: Il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaroli, la chiesa dell’artistico ed alto campanile; tutto era scomparso.

Le stesse cave di breccia e pozzolana come mosse da un piccone invisibile, enorme piccone franano.

Frana anche il palazzo Torlonia il simbolo più grande e forte di Avezzano. Crolla il Palazzo dei soldati seppellendo buona parte dei militi di una Compagnia del 13a fanteria.

Quattromila morti a Pescina, metà della popolazione residente. Distrutti centri marsicani come Paterno e Cappelle, Magliano e Massa d’Albe, Cerchio e Collarmele, Celano, Capistrello.

La ricerca ha messo in evidenza ancora una volta i superstiti e i loro figli, le lacrime di quella donna per la perdita del marito che come scriveva il grande giornalista Scarfoglio “sciolgono finalmente gli occhi troppo secchi di calcina e di pazzia con l’attenzione rivolta al cambiamento dei rapporti tra città e campagna, tra le terre del Fucino e la cittàˆ di Avezzano, tra la fine di un mondo e l’avvio di una nuova realtàˆ economica e sociale.

Due elementi fondamentali caratterizzano la storia del Fucino: il primo consiste nella divisione di questo territorio che si protrae, non solo nei tempi medioevali ma anche nell’età moderna e nell’Italia unita, in due aree sottoposte a differenti influenze sociali, politiche; il secondo consiste nell’esistenza di una catena di grandi feudi protrattasi fin dal Cinquecento e appartenenti nel Settecento al grande patriziato romano.

La differente influenza sul Fucino viene esercitata a nord dai Longobardi, dal Ducato di Spoleto, a sud dai Benedettini dei grandi monasteri cassinesi e volturnensi. La Marsica tradizionale è una porzione di territorio consistente nelle zone del Cicolano, della Valle del Salto, dell’altopiano del Cavaliere verso Rieti e Spoleto. La parte restante gravita verso il sud, il Volturno, il Parco Nazionale d’Abruzzo, Montecassino. Avezzano da una parte, Pescina dall’altra. Anche a livello feudale, nei secoli Cinque Sei e Settecento si individuano due aree: il Ducato dei Marsi degli Orsini e poi dei Colonna da una parte, e dall’altra la Contea di Celano prima appartenente a dinastie locali poi, dal Quattrocento, dai Piccolomini introdotti dagli aragonesi e nel Settecento dai Cesarini Sforza.

Nel Settecento appunto una catena di grandi feudi caratterizza l’intero territorio del Fucino: Tagliacozzo con i Colonna, Celano con i Cesarini Sforza, Sulmona con i Borghese.

L’idea del prosciugamento del lago del Fucino, dopo gli infruttuosi tentativi in epoca romana con l’imperatore Claudio e prima della risolutiva iniziativa del principe Torlonia alla metà dell’ottocento, viene accantonata per molti secoli.

Il prevalere della civiltà pastorale dal Cinquecento al Settecento sulla civiltàˆ dei traffici e dei commerci con l’affermazione della organizzazione fiscale della Dogana delle pecore in tutta la regione Appenninica, dalla valle dell’Aterno al Parco Nazionale, dal Piano delle Cinque Miglia, all’alto Sangro, relega la maggior parte dei centri del lago del Fucino ad una funzione marginale ciò l’abbandono di questa area alla sola pesca comunitaria ed una povera agricoltura per la sopravvivenza stessa dei nuclei familiari.

In quei secoli anche per l’area marsicana l’elemento trainante dell’economia, la vera ricchezza, è costituita dal gregge, dal capitale armentizio.

Su scala regionale infatti, per questi motivi, si registra la prevalenza nell’entroterra di centri come Pescasseroli, Barrea, Alfedena, Scanno, sui centri del Fucino.

Il prosciugamento del Fucino, realizzato con successo dall’azienda imprenditoriale della famiglia Torlonia, fu ideato per ricavare terre da coltivare a grano tanto da definirsi, come dichiarava lo stesso principe Torlonia, Granaio di Roma.

La modificazione di questo vasto ambiente nel senso voluto e attuato dal Torlonia ha dato origine ad una serie di problemi sociali ed economici i cui aspetti negativi hanno pesato a lungo sull’intero territorio.

Probabilmente un diverso intervento sull’ambiente originario, ancora intatto all’inizio dell’Ottocento, consistente, come ipotizzava Afan De Rivera, in un prosciugamento a fasi e tappe successive intervenendo sul lago prima con il rimboschimento, quindi con la cura del territorio e poi con l’apertura di strade e con lo sviluppo parallelo tra agricoltura e pastorizia, avrebbe dato Risultati sociali ed economici molto più incidenti.

Tre elementi importanti hanno caratterizzato per secoli il territorio dell’area del Fucino: la natura incostante del lago, la scarsa superficie coltivabile, la povertàˆ delle colture.

L’incostanza del regime del lago, infatti, portava ad esempio, come afferma il Letta, ancora in epoca recente alternativamente a inserire o cancellare dalle mappe catastali circa 3000 ettari di terreni e rendendosi scarsi ed insicuri i terreni coltivabili anche per la presenza di acquitrini e per il carattere montano di buona parte di questo territorio.

Da questa realtà trae origine e si perpetua una condivisione di vita delle popolazioni dei centri limitrofi al limite della sopravvivenza che trova le scarse risorse nell’esercizio della pesca e in genere nelle poche attivitàˆ legate alle possibilità offerte dal lago.

Tuttavia attorno a quello specchio d’acqua caratterizzante la geografia marsicana, prevalente quasi su ogni altro (lago) italiano per grandezza che costituì sempre, direttamente o indirettamente, una minaccia per le terre ai suoi confini: da Ortucchio ad Avezzano, da Luco a Cerchio, a Trasacco, a Ovindoli, a Celano, da San Benedetto a Pescina, da Alba Fucens a Magliano nacque una civiltàˆ di pescatori la cui rilettura diventa essenziale per tentare una complessiva conoscenza dell’intera area e della successiva bonifica.

Questo lago (del Fucino) per posizione e bellezza, venne a buon diritto chiamato miracolo della natura.

(…)Diverse specie di pesci abbondavano in questo lago, ciò tinche, barbi, lasche, azzoni, non che gamberi e telline. Se ne faceva attivissimo commercio con le provincie limitrofe dai vetturali marsicani. In questi nostri paesi si comprava per venti o al più per trenta centesimi il chilogrammo, e dovevano essere pezzi grandi da due o tre chili per raggiungere il prezzo di cinquanta centesimi. Nella stagione invernale vi albergavano uccelli acquatici, ciò anitre, oche, capiverdi, cenericci e folaghe i quali formavano il divertimento dei cacciatori, e il guadagno di coloro che in vasta scala li prendevano con le reti.

Ognuno di tali uccelli pesava per lo meno un chilo e si aveva per cinquanta o sessanta centesimi.

Ora tutto è finito! L’aratro e la natura dell’agricoltore rimescolano quelle zolle che da secoli erano abituro de pesci, le fa biondeggiare di spighe…

G. GATTINARA 

Storia di Tagliacozzo dalle origini

ai giorni nostri, Cittàˆ di

Castello, anno 1894.

Insufficiente era diventata la manodopera locale per cui si avevano immigrazioni temporanee di mietitori dalle Valli del Liri e del Pescara.

Nel 1884-1885, intanto, erano entrate in funzione delle trebbiatrici a vapore (…)

Venivano anche coltivate patate che davano una resa media di 160 q./ha, barbabietole da zucchero e, nelle zone marginali, viti e alberi da frutta (all’incirca 7500 piante soprattutto meli e peri).

Il problema della frammentazione delle terre del Fucino si evidenzia fin dal momento del prosciugamento del lago e ha forti ripercussioni sui fenomeni sociali dell’area in questione.

A distanza di alcuni anni dal primo frazionamento operato nel 1890, ancora nel 1919 i grandi affittuari sono 25 e hanno a disposizione 440 ettari. Per le terre del Bacinetto, le più depresse, alla famiglia Tittoni subentrata la Romana Zuccheri che ne coltiva 150 ettari direttamente e 2132 ettari che subaffitta a 1400 concessionari con obbligo di coltivazione delle barbabietole.

880 ettari sono condotti da 784 mezzadri.

L’area tra Luco e Trasacco di 1242 ettari, dove si sono trasferiti gìà dall’inizio della bonifica, nel 1854, i contadini chiamati dalle marche e dal Vomano, è usata a colonia toscana con poderi affidati a coloni teramani e marchigiani che ora sono saliti a 60. Ogni famiglia di colono è composta di 25-30 individui ed ha una disponibilitàˆ di circa 20 ettari che, per le necessitàˆ della famiglia o del gruppo di famiglie imparentate tra loro che occupano il podere, sono insufficienti.

L’amministrazione Torlonia conduce direttamente 1100 ettari ed occupa anche 500 lavoratori in impianti di segherie, mattoni e forni. La restante superficie del Fucino, 6740 ettari, è divisa tra una cifra stratosferica di piccoli affittuari: 9487.

La ricerca ha trovato la ragione di questa frammentazione e le ripercussioni sulla vita dei contadini coloni e affittuari; i movimenti e le lotte dei contadini sfociati nel comizio di S. Benedetto del 19 febbraio 1911 in cui si denunciavano le retribuzioni inique dello zuccherificio, l’occupazione da parte delle donne di Ortucchio del Fucino, il grande sciopero dei trenta dipendenti dell’azienda di strada di Ortucchio.

Nel 1890 l’azienda Torlonia divise i 15.000 ettari di terreno coltivabile tra la conduzione diretta (2800 ettari), la mezzadria (900 ettari), l’affittanza (9300 ettari).

Le terre ad affittanza non furono concesse ai contadini dei paesi circumlacuali ma ai gabellotti fucensi rappresentati da notabili locali accuratamente scelti paese per paese. I gabellotti corrispondevano all’amministrazione Torlonia dalle tre alle cinque lire per ogni coppa di terra avuta in fitto e la subaffittavano dalle sei alle sette lire a coppa.

Ai gabellotti le famiglie contadine dovevano fornire oltre al fitto prestazioni aggiuntive. Queste prestazioni, stabilite nel contratto, rientravano nelle consuetudini, ed erano imposte dai gabellotti con richieste verbali e venivano eseguite dai contadini in maniera concorrenziale tra loro per assicurarsi il rinnovo del contratto di affitto o per dilazionare con l’indebitamento nei confronti dell’affittuario.

La ricerca, dopo aver evidenziato i termini dei contratti, ha provato a rimarcare anche questi ulteriori aspetti fortemente significativi per la famiglia contadina.

Prima della riforma agraria (1951) la terra nel Fucino Poteva essere posseduta soltanto a titolo di affitto, come afferma Pizzuti, per modo che il relativo coltivatore sapeva che la parcella non poteva mai diventare propria, né dei propri figli (…)

… questa disposizione a possedere la parcella indifferentemente nell’uno o nell’altro appezzamento, a barattarla oppure ad evitarla per riacquistarne un’altra, poteva sistematizzare l’assenza di un’importante caratteristica del contadino, il legame alla zolla coltivata.

Ma la Zolla era importante per la sopravvivenza e i contadini, davanti ai contratti fatti dal Torlonia e dalla famiglia romana dei Tittoni che aveva avuto in fitto terre del Bacinetto, 2305 ettari nel punto più depresso del bacino del Fucino, come afferma Carmine Letta … commentano, magari con dolorosa impressione, i patti gravosi, sospiravano sui disinganni patiti, mormorano spesso contro l’amministrazione e quando poi si rinnovano gli affitti, si gettano a corpo perduto, facendo offerte sempre maggiori, pur di dirsi affittuari del Fucino…

In effetti, per esempio, la Famiglia Tittoni pagava all’amministrazione Torlonia 80 lire di fitto per ettaro delle terre del Bacinetto, soggette a rischio di allagamento, contro le 170 lire medie pagate per terre buone e le subaffittava ai contadini a 280 lire l’ettaro senza rilasciare copia del contratto, tanto che in breve ci fu una folla di subaffittarti indebitati con loro.

A. PIZZUTI,

Le affittanze agrarie nel Fucino prima della riforma fondiaria In  Quaderni della Maremma, I Serie, Avezzano ,1953

Il forte scontro tra gli interessi dell’azienda capitalista e quelli delle popolazioni divenute coloni, affittuari e mezzadri, oltre che operai delle fabbriche e laboratori, rappresenta il nodo centrale della questione Marsica tra la fine dell’Ottocento e buona parte del Novecento.

 A risolverlo provvederà la Riforma. Includendo il Fucino tra i comprensori di applicazione della legge stralcio, il governo democratico – come afferma SERVIDIO – chiude un capitolo di tensioni decennali riscattando la terra contesa al lago, alla proprietàˆ contadina (1950).

Partendo da questa ipotesi la ricerca in una prima fase ha evidenziato punti di domanda importanti: quanto erano pronti pescatori, contadini e pastori ad accettare e vivere la profonda trasformazione; le nuove opportunità come sono viste da questi pescatori e contadini; quali aspettative crea in  loro il prosciugamento; l’aspirazione delle comunità ad essere liberata dalle piene del lago, durate secoli, ripaga poi di fatto, al momento in cui si realizza, quello che lo economia montana negava da sempre; come veniva vista lo iniziativa del Torlonia e che cosa rappresenta˜ di fatto questo Padrone per la gente della Marsica.

Intorno al 1881 erano emigrate nel Fucino 1500 persone per eseguire i lavori di prosciugamento. Fra questi molti erano piemontesi perché probabilmente avevano gìà lavorato al traforo del Moncenisio.

Questa massa ingente di operai, in posizione privilegiata rispetto agli agricoltori pastori e pescatori locali, fu certamente portatrice di problemi, esigenze e tradizioni.

La ricerca ha rilevato i problemi di integrazione e le tensioni sociali esplose in questa situazione e proverà, la ricostruzione dei due mondi che vengono a contatto tra loro, seguendo poi il destino di quegli immigrati sia durante i lavori di prosciugamento che dopo.

Ai primi del Novecento, come afferma Raffaele Colapietra, la presenza dello zuccherificio segna nel Fucino il passaggio, Nel nome della bietola, ad una fase industriale che in Abruzzo si realizza in egual misura solo nella valle del Pescara nel campo elettrico e dell’asfalto.

Questo sviluppo industriale si realizza a contatto di un nucleo urbano vero e proprio considerevole come Avezzano che si trova ad ospitare un proletariato operaio dopo l’arcaica economia familiare della patata e del fallito exploit cerealicolo della grande azienda capitalistica, il granaio di Roma, che aveva ispirato l’impresa del principe Torlonia.

All’inizio dell’Ottocento il territorio della Marsica, occupato quasi per due terzi dal Lago Fucino, era caratterizzato da una economia in cui il maggior reddito derivava dalla pastorizia, posto che ogni commercio era soffocato dalla inesistenza di strade carrozzabili, dai sentieri di montagna impraticabili per buona parte dell’anno, l’agricoltura limitata alla scarsa superficie collinare, l’assenza di ogni attivitàˆ artigianale di rilievo.

L’importanza della transumanza e quindi dell’allevamento ovino era testimoniata dal fatto che Celano era uno dei punti di partenza dei tratturi attraverso i quali si portavano le greggi in Puglia.

L’affrancamento del Tavoliere con la legge del 1806, che favoriva il dissodamento di quest’area per l’uso agrario, costrinse l’industria della pastorizia marsicana a trovare disponibilitàˆ di prati nelle montagne locali e vicine con distruzione di boschi.

Questo provocò˜ comunque un declino dell’industria ovina e molti dovettero emigrare in cerca di lavoro come pastori e manovali.

In queste condizioni di arretratezza e di miseria per chi restava, l’unica fonte di nutrimento di un certo rilievo era rappresentata dalla pesca nel lago Fucino anche se praticata con metodi primitivi, con barche a fondo piatto che venivano mosse a forza di remi.

L’agricoltura, limitata alle zone collinari, aveva un’importanza e peso relativo perché spesso i terreni erano invasi dalle acque.

Partendo da questi aspetti economici sociali e politici della Marsica all’inizio dell’ottocento, attraverso i documenti d’archivio (della famiglia Sforza di Celano) membranacei (secc. XIII-XVIII) e cartacei (fascicoli e volumi sec. XVI-XX), la ricerca ha ricostruito il commercio della lana e dei manufatti legati all’industria armentaria, il tracciato dei tratturi, la vita dei pastori, il regime fiscale e i regolamenti legati alle gabelle per la distribuzione della farina, olio, vino, legna, il taglio dei boschi, il trasporto del sale, elemento importante, il regime delle fiere e dei mercati.

Per l’agricoltura, in particolare, la ricerca ha ricostruito il ciclo delle coltivazioni, la mietitura e la trebbiatura del grano, gli appalti, il reclutamento dei braccianti, le spese per erigere argini a difesa dei terreni dalle inondazioni del lago, la verifica delle terre riemerse dopo le decrescenze delle acque del lago, l’apposizione dei confini del lago con segni lapidei del lago, fino alla ripartizione dei campi recuperati con il prosciugamento.

Per la pesca la ricerca ha analizzato le delibere d’affitto del Lago Fucino per l’esercizio della pesca, in quanto il lago situato all’interno della contea dei Marsi era di proprietàˆ delle famiglie feudali che lo affittavano (Duca Filippo Sforza, Conte di Celano); le proteste dei pescatori vessati dall’affitto e le richieste di sconto per calamitàˆ per le quali non era possibile praticare la pesca; le liti e dispute tra le famiglie feudali che avevano giurisdizione sul lago; i ricorsi contro la pratica della pesca nel lago con le frasche.

In particolare, per quello che riguarda la pesca sono state osservate le tecniche, gli strumenti, le barche, gli approdi.

La ricerca ha  ricostruito anche i rapporti tra proprietari del lago e comuni rivieraschi, i termini del diritto per l’esercizio della pesca, le imposizioni fiscali ai pescatori del lago, la disputa tra Colonna-Badia di S. Maria della Vittoria di Scurcola contro i pescatori, in quanto la Badia rivendicava il diritto esclusivo concessole al momento della fondazione da Carlo d’Angiò; l’imposizione di conferire la sesta parte del pescato alla famiglia feudale concessionaria e il ripristino di queste tasse abolite con l’avvento napoleonico.

La ricerca ha analizzato anche il sistema delle stanghe baronali, particolari costruzioni di proprietà feudale, disseminate lungo le rive del lago, dove i pescatori non di professione dovevano recarsi per pagare la ritenuta del sesto del pescato che veniva pesato con il bilancione un asse di legno detto comunemente stanghe.