Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

La testa appena reclinata, lo sguardo perso e triste, il corpo curvo, ammantato da una veste e defilato rispetto alla centralità dell’azione, quella che conta: la Madonna che accoglie tra le braccia il bambino con una donna a fianco e, sopra la capanna, una corona di angeli; intorno anche i pastori, persino il bue e l’angelo sono stati dipinti a ridosso di quella scena, insistono lì per dare spessore alla rappresentazione. Lui, invece, continua ad essere solo, accovacciato, distante, sembra dolente, indifferente a tutto quello che d’importante sta accadendo; solo una pecora, di un piccolo gregge, gira la testa e lo guarda. Quando Giotto dipinge (1303-1305) l’affresco della “Natività”, commissionata da Enrico degli Scrovegni per la loro Cappella a Padova, San Giuseppe è, e lo sarà ancora per i successivi secoli nella storia della pittura religiosa, un personaggio di poca importanza se non addirittura goffo, imbarazzato, di aspetto umile, di dimessa vecchiaia e di secondo piano, che compie a volte incombenze servili.
Botticelli, Bellini, Raffaello, Poussen, La Tour e tanti altri lo rappresentano così come è stata tramandata la sua figura dall’interpretazione del Vangelo (soprattutto gli apocrifi) e dalla popolare caratterizzazione mediatica nelle sacre rappresentazioni, quelle che hanno inizio nel mondo medievale, intrise di un alto grado di teatralità, in un cerimoniale di piazza, spettacolare, popolare che rimbalza anche qui, in alcune contrade. Queste divennero anche rito liturgico, racconto evangelico e raccoglimento intorno alla materializzazione annuale di un evento: il 19 marzo, San Giuseppe, ovvero la “Sacra Famiglia” e “Lu pranzitto”, così chiamato, appunto, in una piazza medioevale di Cardabello, un borgo inimmaginabile per quello che vedeva, nel comune di San Demetrio né Vestini.
Si partiva dalla chiesa, dalla funzione propedeutica al rito, quando il sacerdote citava nel panegirico San Giuseppe. Diceva che era il padre putativo, che la Madonna lo voleva rimandare segretamente via perché aveva dubitato di lei. Ma l’angelo gli disse: “Non temere, perché lei è stata concepita per opera dello Spirito Santo”. Poi si passa all’evento, nel quadro narrativo che prende forma con “gli attori” e ricompone i significati intorno alla “Sacra Famiglia”: su un palco, al centro della piazza, i personaggi, tre (San Giuseppe, la Madonna e il Bambino) e il pranzo che gli viene servito, la gente che guarda, assiste, commenta nel suo divenire epistolario collettivo e riceve alla fine la sua benedizione. Ma sul palco intanto cibo e religione sono ostentati, offerti, in una tavola dei poveri, come nel medioevo dove i cristiani dovevano essere attenti all’aspetto sacro dei pasti, i tre personaggi, raccontano, venivano da Barisciano a piedi e salivano sul palco. Lì si diceva “a Barisciano ci sono i poveri”.
Solo negli ultimi decenni le persone si vestivano, in costume, con una tunica per San Giuseppe, un velo per Maria e una piccola tunica per il Bambino. La “Sacra Famiglia mangiava” e una folla, immensa, proveniente da tutta la zona, guardava. Una donna del paese cucinava: sagnette all’uovo, arrosto e dolce. Nel pomeriggio si benediva il cesto per “lu pranzittu”, e con la banda dietro e tanta gente in corteo, una donna con il canestro in testa arrivava alla piazza. I personaggi venivano serviti, e riveriti sul palco in legno, altare liturgico, affidato alla “creatività”, desueto luogo di piccole biografie inconfessabili, teatralizzato per il pubblico quel “podio”, sensibile, stridente rito della povertà tirato fuori dalla sua quotidianità che anch’essa si fa spettacolo, per un certo tipo di religiosità popolare, a guardarla oggi a distanza di tempo.
Le fotografie.

Giotto dipinge (1303-1305) l’affresco della “Natività”, Cappella Scrovegni, Padova.
Cardabello ( San Demetrio né Vestini), la piazza de “lu pranzittu” e della Sacra Famiglia.

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