Celestino V, per “salvarsi dalle tentazioni del potere…”. Così disse Ignazio Silone.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Ignazio Silone è alle perdici del Morrone, sopra di lui l’eremo di Celestino V, e la badia di Santo Spirito ai margini della conca di Sulmona. Sul sentiero che porta su, incontra un anziano contadino che cerca erbe medicinali, si ferma e conversa con lui. Egli, racconta, che in gioventù andò in pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto. E per essere creduto si scopre il braccio e mostra un tatuaggio turchino (presso il Santuario di Loreto, i frati, chiamati “Frati Marcatori”, applicavano l’arte del tatuaggio, raffigurazioni di simboli cristiani diversificati, ma ben oltre, nel tempo, fino ai soldati del Sepolcro di Gerusalemme: tatuarsi, documento epidermico del pellegrinaggio, e per i crociati, riconosciuti cristiani, sigillo per degna sepoltura in terra consacrata). Il tatuaggio dei pellegrini cristallizzava il rito penitenziale, definito delle sette montagne nel santuario della Trinità – Subiaco. In vita, almeno una volta, bisognava mettersi in cammino per raggiungere questi due luoghi, continua l’anziano contadino, che erano, insieme ad altri, un vincolo morale per i buoni cristiani, un impegno etico, un debito che ognuno aveva per sciogliere un “voto”. Al termine della conversazione con Ignazio Silone si parla di Celestino V. L’uomo anziano, confida, che lui, non ha mai saputo in che modo “rivolgersi”, in che maniera invocarlo e pregarlo, quel fra’ Pietro del Morrone divenuto papa. Silone, che sta per chiudere il romanzo “L’Avventura di un povero cristiano” (premio Campiello, anno 1968), incentrato sulla figura di Celestino V, gli risponde che sì, può aiutarti, pregandolo, a “salvarti dalle tentazioni del potere…”. Infine la stoccata finale dell’anziano rivolto a Silone e ai suoi accompagnatori, che li lascia basiti: “Allora è un santo non per noi poveracci, ma per i preti…”. La fascia pedemontana del Morrone, i centri, le case sparse, gli agglomerati urbani si incollano alle pendici della montagna e ne seguono il suo andamento morfologico, e sembrano non perde d’occhio l’eremo del Morrone, a metà costa della montagna, da generazioni divenuto l’ombelico della cristianità popolare. Quel che resta oggi della cultura contadina e della narrazione tramandata, dell’ideale di Celestino V, è in gran parte custodito nelle fotografie che mostrano il culto e la processione per Celestino V ( castello di Fumone, dove morì il 19 maggio 1296 ), l’eremo e gli affreschi, i luoghi delle scale che si appoggiano alle case e le persone con le stampe e i santini, mostrati, del santo eremita. Gli interni delle abitazioni, il lavoro agricolo, le stanze delle stesse case contadine: etnofotografia, una sociologia visuale che accompagna la narrazione, traduce in definitiva le permanenze del pensiero siloniano mai estinto anche prima, molto prima di lui che se ne fece interprete nel romanzo, ma che ancora oggi puoi toccare, in continuità, di quella “periferia nelle cose”, dei luoghi, degli scenari, e soprattutto nelle parole degli uomini e delle donne, lì, in quelle terre del riposo e del segreto, della passione, che nulla chiedono…