Il dialogo dell’acqua e del pane. L’evento del 5 febbraio.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

La Bona dea latina (dal greco Agathé), venerata divinità pagana della fecondità, è forse per assimilazione ed elaborazione diventata Sant’Agata nella seconda metà del III secolo, sotto l’imperatore Decio; la giovane martire, narra la Legenda Aurea, dai seni recisi su un piatto, dalle tenaglie in mano, dalla torcia e dalla candela accesa (simbolo di potenza contro il fuoco), dal corno e unicorno (simbolo di verginità), e soprattutto con la palma del martirio e i suoi altri attributi: giglio, palma, pinze, seni recisi su un piatto, torcia o candela accesa.

Appare così nella pittura che la rappresenta dal Quattrocento al Seicento (Piero della Francesca, G. B Tiepolo, Sebastiano del Piombo, Giovanni Lanfranco, Francesco Guarino. Quindi dalla pittura alla scultura, dall’’arte musiva e miniata a quella orafa, fino a toccare le recenti forme innovative che coniugano più settori, come quello del cake design e della street art… Seminuda la santa, nell’atto di subire le torture, il supplizio del seno reciso, un vero e proprio attributo iconografico della martire testimone di una fede antica, dagli occhi neri e i capelli scuri per rispecchiare i tratti della sua terra, la Sicilia, da cui il culto si propagò in regioni e contrade più lontane nella festività del 5 febbraio, mentre la tradizione popolare elaborò rituali e forme di devozione divenuti veri e propri cerimoniali, protocolli, regole condivise, formulari dalle comunità locali che si raccolgono (il diagramma penitenziale degli ex voto per grazia ricevuta che nelle case del borgo ancora si conservano), anche dall’alba al tramonto, in particolari modelli di memoria della devozione, d’intensa religiosità inconfessabile entra nel privato della persona e sfiora la venerazione.

Accade così che le radici di tale culto assumano rilievi inconsueti. Accanto alle liturgie religiose (messe e suffragi) i simboli della martire Agata emergono incontrastati e si predispongono, allevati dalla comunità crescono, dalle prime luci del giorno, nel centro di Castelvecchio Subequo, dove per la rappresentazione della cultura popolare in suo onore si preparano pani particolari, che lievitano vicino al camino o nella stufa.

Cresce e riposa” così il detto locale, il pane, al buio, sorvegliato e sfiorato all’alba del 5 febbraio (martirio di Sant’Agata) dal gesto di una mano, un segno di croce che passa sull’impasto dolce, prezioso, fermo e avvolto nei panni di cotone.

La metamorfosi è in atto: presto, staccata in pezzi, la pasta di pane dolce assume una figura plastica figurativa, si modella a forma di seni (naif: arte popolare dei pani modellati e cerimoniali nel linguaggio primitivo) allineata su una “spianatora” in legno, pronta a essere trasformata nella cottura nei forni di “San Rocco” e “Baglietto” ed altri nell’immediata periferia di Castelvecchio (almeno un tempo era così).

La protettrice delle partorienti, così chiamata la santa, corrispondeva al dono del latte materno (così nelle narrazioni storiche di Antonio De Nino), background di una società rurale ottocentesca povera e privata di assistenza, con altissima mortalità infantile, stipata nella valle omonima alle pendici del Sirente nel suo isolamento. E questo skyline della devozione si mostrerà fino alle ultime luci di questo giorno, poi il buio, l’oscurità metafisica avvolgente, ma che si popola di ombre, alla fonte di “Macrano” di Castelvecchio Subequo, quando inizia il pellegrinaggio delle “richiedenti” che segna l’epilogo dei pani da bagnare portati dalle donne e poi mangiati per “proteggersi” dalle malattie. Pane e acqua miscelano la sintesi dell’osservanza, del mistero che va ben oltre il rito eucaristico della Chiesa. La laicità di forme taumaturgiche devozionali è tutta in quella penombra dove le donne rinnovano il patto del loro silenzio, della loro solitudine nel culto personale e intimo, ancora oggi, nelle nuove patologie che investono la stessa donna in questa geografia scenica che augura il “passaggio”, oltre le malattie.

L’incontro, il rito antico, la fecondità, in questo crocevia di spazio sacro, acqua sorgiva, pane, e autocelebrazione: topos della mente, geografia devozionale, luogo della memoria lunga. E torna l’acqua, che nelle culture arcaiche è sempre stata elevata a simbolo di fecondità, di trascendenza; l’acqua a cui spesso sono stati associati eroi-fanciulli dall’eterna giovinezza, ha mitizzato i luoghi fisici nel mondo greco-romano, ma che con il cristianesimo ha saputo trascinare, anche intorno a noi, i suoi miti, ancora non globalizzati.

Le immagini.

Castelvecchio Subequo. Il pane dolce a forma di seno, la chiesa, la fonte miracolosa.

L’opera d’arte. Andrea Vaccaro, Sant’Agata in carcere. Olio su tela, 1650 ca. Proveniente dalla collezione marchese Cappelli. Museo Munda – L’Aquila, presso il monumento delle 99 Cannelle.