Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Sotto i pinnacoli, sul tracciato dei morti, Aragon, Gimli e Legolas il sentiero lo percorsero fino alla cavità per risvegliare l’esercito dei morti ne Il Ritorno del Re, Il Signore degli Anelli. I pinnacoli di roccia, in sequenza, invece, adesso, sopra di noi, quasi fossero dentro uno spartito musicale, altalenanti, svettanti e insidiosi, incombenti e carichi di mistero geologico (quale altra migliore ambientazione scenica del Signore degli Anelli se non questa), mentre appunto risaliamo il sentiero, a Sud, entro il fondovalle di un canale di erosione dai ghiacciai, il Quaternario, di milioni di anni: la Val Maone, ambito geologico carico di un mistero visivo, scolpita e modificata da una glaciazione che l’ha fatta sprofondare tra le pareti e le giogaie di Corno Piccolo e Pizzo Intermesoli che si fronteggiano: falesie, quinte carsiche, pilastri e pareti ma soprattutto pinnacoli, guglie, formazioni rocciose, coni di accumuli di detriti, gravine e sorgenti sotterranee che emergono e scompaiono per riaffiorare alla base delle doline. I brecciai dei circhi glaciali. Il Signore degli Anelli sembra essere qui…! A 1710 metri la Grotta dell’Oro, pendici Occidentali di Pizzo Intermesoli (posizionata sulla direttrice verticale di Picco Pio XI), con una geometrica fascia boschiva che si insinua alle pendici del suo imponente ingresso, spalancato, pronto ad inghiottire. Tutta l’area geografica prospicente la valle veniva chiamata Conca d’Oro nel 1911 in un resoconto a seguito di una escursione nella Val Maone: è il 17 agosto. La relazione sul campo, inoltre, segnalava fino a quattro ghiacciai che scendevano dalle pendici orientali di Corno Piccolo. Ma la Grotta d’Oro ( 1710 m. s.l.m.) è leggenda, trascinata dalla tradizione orale, dai racconti e l‘affabulazione delle genti locali, profonda circa 35 metri, e con una larghezza che varia dai 10 ai 14 metri, scavata con il piccone nelle sue numerose anse che modellano l’interno e penetrano nella montagna per cercare l’oro (ancora si vedono i colpi inferti nella roccia); una vena aurifera venuta alla luce, tanto che illuminava la grotta e proiettava all’esterno la luce del prezioso metallo, si racconta: un faro luminoso color oro che nell’oscurità delle notti fuoriusciva, rimandava ad arcani e occulti misteri, una manifesta magia propiziatoria proveniente dal ventre di Pizzo Intermesoli. In primo luogo meravigliò i pastori al pascolo lungo la valle, depositari dei segreti della montagna e dei suoi miti mai estinti, per poi richiamare i cercatori d’oro di qualsiasi estrazione sociale. Non era oro, infine, ma pirite giallo d’ottone dalla lucentezza metallica che produceva scintille. Ormai era tardi, il viaggio della leggenda era iniziato, la tradizione orale aveva superato le montagne, il patrimonio mitico avrebbe avuto il suo fine, il termine, nella geografia subliminale del Gran Sasso, per posarsi, molto più a sud, a circa 1957 metri, risalendo il sentiero, al confine del mondo conosciuto: “Le capanne in pietra”, insediamento pastorale, frontiera… e non oltre quella conquista di pietre a secco composte per il rifugio, quindi, il traguardo, limes separazione tra due opposti (e lo vedremo), il limite oltre il quale nella concezione dei pastori e delle greggi al pascolo non bisognava andare, così i racconti, “ti puoi far male…”. Il villaggio dei pastori a forma di chiocciola, microcosmo, essenziale su un terrazzamento, capanne con pietre a secco appoggiate ai grandi blocchi calcarei erratici precipitati lì da qualche parete e declivio della montagna. Con l’architrave nell’ingresso e le spalle ben allineate che lo mantengono con uno spessore di circa mezzo metro, la struttura si alza a formare una cupola che spinge ai lati del cono il suo peso e serra le capanne in pietra. Qualcuno ha pensato di intervenire con una sorta di manutenzione, ma ha sconvolto e modificato il principio costruttivo delle stesse che seguivano un ordine nell’elevazione verticale. Ogni capanna poteva accogliere anche diversi pastori per il ricovero della notte. Intorno, i recinti in pietra a secco per il gregge che utilizzavano le curve di livello della montagna, e ai lati delle capanne gli stessi recinti, ma di dimensioni inferiori e contenuti, per le pecore e gli agnelli da allattare. Il laboratorio della preistoria fin qui, spazio fisico-sociale dove si sono formate leggi e usanze di una organizzazione chiusa, rarefatta, antropica presenza “dell’Oltre”, negli uomini, intesa come forza indomabile, clanica, del gruppo dei pastori. Accetta la sfida sul “nulla” nella dimensione appenninica estrema, solo per diritto di economia di sussistenza, non c’è estetica del paesaggio così come noi siamo abituati, ma un ambiente della pastorizia transumante portato al suo limite in un paesaggio geologico di morene carsiche, pietrai e brecciai che non fanno sconti: habitat di circhi glaciali, e oltre, uno spazio – altro estremamente poco vivibile, dove persino le vipere sono andate via. Mentre scendiamo la Val Maone, la tempesta d’acqua è in arrivo, si annuncia. L’anfiteatro della Sella dei Grilli, e i rilievi di Cefalone e Portella si chiudono con le nuvole, lo skyline scompare, cambiano colore, cupe e inquietanti masse si muovono, si abbassano e avvolgono il paesaggio. Quel micro universo si riprende la scena nel Signore degli Anelli.

Con noi lungo il sentiero Gianfranco Francazio.