Il mulino di Tempera (AQ). Le donne, il lavoro, il racconto del Novecento.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

È lì, a Tempera, frazione dell’Aquila (dove è nata) ci aspetta con la tovaglia imbandita (tra un po’ lo capiremo), tessuta al telaio in legno e il ricamo rosso a punto e croce, lo stesso che con ago e filo, sui fazzoletti, nel ‘900, le fanciulle utilizzavano per “inviare” messaggi, ma che non erano Instagram. Twitter, YouTube, WhatsApp, ma ricami di narrazione talmente intimi e personali, no quindi social media che viceversa si cibano, sbranano il privato, e poi si commuovono, e poi divorano e poi piangono, ridono, insieme si disperano: il loro mestiere è inghiottire, senza sconti, costi quel che costi un nemico che non vedremo mai… Torniamo al fazzoletto, il messaggio a punto e croce ricamato. Questo è un esempio: “Gemito/ di ogni vena scorrermi sento/ il sangue/ ombre/ e figlie e canto mi ombre di terror/ e per maggior mie pene/ veco che fui crudele ad una anima fedele/ da un innocente cor”. Sembra di leggere d’Annunzio e Barbara Leoni (1887 – 1892) nel loro scambio epistolare nel vertice dei sensi inconfessabili. Riprendiamo. La tavola imbandita. Certo, qui a Tempera non sembra tutto normale, Maria Miconi di 95 anni moglie del mugnaio Carlo Gasbarri (aprile 1918), terza generazione, ha voluto così, lei, davanti alla porta del mulino Gasbarri, il tavolo imbandito con le uova, farina e acqua: prepara la pasta ammassata. La gente passa, domanda, si accosta, qualcuno si siede, Maria impasta e comunque non durerà poco la lavorazione anche se l’effetto mediatico e sotto gli occhi di tutti. Potrebbe essere la protagonista in questo fuori onda, ma quel contrasto con la quotidianità svanisce dopo un po’: impasta e racconta, indifferente al resto. Il suo Novecento. La storia del paesaggio agrario e la prima parola che pronuncia è “povertà”, poi alta demografia, famiglie numerose allargate e coabitanti, sussistenza, terre da coltivare aride e sterili in montagna, molti campi ricchi e di censo del latifondo baronale e della Chiesa.” La povertà era miseria”, continua a ripetere. La farina scura (nera) era tutt’uno con la crusca – non quella del diavolo – per chi era povero. La madre usciva all’alba, aveva nove figli, per chiedere alle case dei ricchi dei dintorni un po’ di farina. Maria ammassava già a cinque anni, ma solo a Pasqua e Natale, le davano uno sgabello, ci saliva sopra e preparava la pasta nera per tutta la famiglia. Poi sposa il mugnaio Gasbarri. Molto tempo prima la famiglia Gasbarri, nel 1857 era diventata proprietaria del mulino con la ruota (retrecine in legno) orizzontale. Nel 1897 un nuovo ingranaggio, la ruota verticale che muove tre coppie di macine invece di una: una rivoluzione, appunto, industriale, così si chiamava poiché le nuove tecnologie del ferro si combinavano con l’idraulica del corso d’acqua, mai vista nella Conca dell’Aquila. Il mulino, tanto importante nella sua azione che Dante, nell’Inferno, XXIII -46, per dimostrare come Virgilio lo tolga e come un figlio lo stringa a sé dall’insidia dei demoni, cita la ruota, le pale e l’acqua in un’unica azione: “Non corse mai si tosto acqua per doccia a volger ruota di mulin terragno, quant’ella più verso pale approccia”. Oggi, nel 2021, è la quinta generazione che macina il grano con una quantità di cinquanta chili ogni ora, prima un quintale ogni ora. Le qualità: solina, mentana, abbondanza, rosciola, bolero, balneo, gentilrosso.  Si iniziava a frantumare il grano alle sei di mattina fino a notte. Spesso “cascavano i denti” agli ingranaggi del mulino, racconta Maria, si dovevano rimettere “a posto i denti” di legno, sull’albero orizzontale che trasmette il movimento alle macine, con il legno di sorbo precedentemente essiccato in tronchi. Il mulino si fermana. Bisognava intagliare quindi il tronco con la sgorbia e ricollocare il dente… Il lavoro del mugnaio si pagava sempre dopo la macinazione del grano, tutto veniva scritto in un libretto, oppure con il baratto: fagioli, lenticchie. Infine, nel locale del mulino, sopra le casse in legno (tramoggia di carico) che contiene il grano versato prima che questo entri nelle macine e diventi farina, un elemento animistico, scolpito e lavorato, tridimensionale che si alza, una sorta di mano che punta al soffitto. Quasi fosse di una religione primitiva che svetta su tutto l’impianto dell’opificio per divenire desueto, criptica scultura primitiva coperta dalla farina, ma con una funzione: un lembo della corda (con un peso e una asticella di legno) va dentro la tramoggia e a contatto con il grano, l’altro lembo con una campanella sfiora la macina superiore. Quando termina il grano nella tramoggia, il campanello scende, tocca la macina, suona e avvisa il mugnaio che la tramoggia è vuota. La mano è quindi il fulcro, il passante della corda a cui si appoggia questo complesso movimento, una sentinella con quelle quattro dita, così si presenta, appoggiata e inchiodata sul bordo della cassa e replicata per le altre tramogge, quasi appartenesse a funzioni magiche – religiose, esoteriche, misteriose del mulino che evoca e dialoga con il mugnaio che la tiene sempre sotto osservazione. Una “visione”, non un particolare secondario, ma il senso stesso del “dialogo” tra l’uomo e la macchina del grano e del pane, di questo mondo rivelato che assomiglia sempre più a una fiaba.

Un ringraziamento particolare a Carlo Silvagni, quinta generazione di mugnai a Tempera.