Testo di  Vincenzo Battista .

Alla fine, ma solo alla fine sono diventate falene, quelle che si risvegliano dopo la metamorfosi che compiono, quelle che si muovono freneticamente intorno al lume acceso, girano vorticosamente attratte dalla luce; hanno viaggiato provenienti da un mondo antico, arcaico, di visioni, trascendente, identificato anche con il Fuoco Sacro della vita e della morte, attivo ancora in Inghilterra in questo periodo, il Guy Fawkes Day. Ma ancora oltre si scoprono nei miti locali, legati alla terra e all’aria con una stessa presenza da decifrare: le falene, le farfalle dunque, anime dei defunti di credenze religiose e antiche leggende dello spirito che non trova pace, portatori di avvisi, spettri della memoria nella notte di un mondo preistorico che si è soprattutto depositato nelle culture popolari, nella cultura contadina e nei paesi del Fucino ha trovato la sua metafora nel giorno della commemorazione dei defunti: le falene, le anime delle donne che in vita hanno smarrito “la retta via”, si sono perse e gli uomini le devono uccidere, porre fine per sempre alla loro scomposta attrazione verso la luce nella danza ammaliatrice, alla loro ansia verso la vita che non ha riscatto, sopprimerle; ma non tocca alle donne, a loro è vietato. Loro, si racconta a Pescina, borgo della Marsica, non possono entrare in chiesa quando questa è illuminata dalle candele dei loro antenati che molto tempo prima venivano sepolti proprio sotto il pavimento della chiesa divenuto per secoli ossario, sito sacro.

Quelle luci accese di mille e mille candele dei primi bagliori dell’alba sono per i defunti, la loro prima messa, il “Divino Uffizio” dei morti che ha luogo appunto la mattina presto di “Tutti i Morti”. Si racconta che una donna, ignara di quanto stava per accadere in chiesa, passando di lì, incuriosita dalla luce che fuoriusciva dalle vetrate, aprì la porta dell’edificio religioso ed entrò. La chiesa era illuminata, piena di gente raccolta nella funzione religiosa. La donna prese posto, si inginocchiò e fu avvicinata da un’altra che le si mise di fianco, pensò fra sé di averla conosciuta un tempo, e infine parlò:” Comare, qui non stai bene; vai via. Siamo tutti morti, e questa è la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti morti”. La comare ringraziò, ed andò via subito; “ma per lo spavento – annotava nel 1894 il folclorista G. Finamore – perdette la voce”.

La Chiesa indica in Odilone, l’abate di Cluny ( Borgogna), nel 928, colui che per primo si fece carico di revisionare le celebrazioni liturgiche e fissare la data del rito che si celebra per i defunti, il giorno seguente la festa di Ognissanti, per dare un ordine sul piano terreno a quell’anima elevata al di sopra della natura, elemento di purezza e cristallinità, “soffio vitale” che impregna il corpo, coscienza dell’uomo, sede della spiritualità e “fiaccola della vitalità”, negazione del “nulla”, “materia” che spinge l’uomo a credere nella sua immortalità. Quell’anima da difendere secondo la stessa Chiesa dai culti agrari pagani, infarciti di usanze del mondo delle tenebre e dell’occulto, credenze magiche, danze, fuochi, riti di previsione del futuro, poiché anche loro aspettavano il ritorno dei morti sulla terra sotto varie forme e simboli, comunque da sradicare e sostituire in un altro periodo dell’anno, dannosi per la Cristianità, ma non per il volo delle falene.

“E’ tutto cambiato.” dicono a Pescina, ma resta comunque latente in questo periodo la notte delle anime, che precede il due novembre: la visita che queste compiono, il viaggio intrapreso, soprannaturale nell’oscurità che avanza, fino al fuoco del camino delle case dei congiunti che veniva “abbelato”, ricoperto, velato; oppure verso i tavoli che venivano imbanditi la notte, per la mensa delle anime vaganti nelle campagne guidate da un lume, dal pane e dall’acqua del desco. Le anime dei morti e la cabala dei numeri magici, un rito antico: ” Dovevi mangiare 13 fave con tutta la buccia e dire un Padre Nostro” raccontano gli antenati, fino alla descrizione del poeta latino Ovidio ( 43 a. C. – 17 d. C.) nel V Libro dei “Fasti” dedicato alle feste e a miti del calendario romano: “Verso la metà della notte, quando il silenzio favorisce il sonno, quando i cani e gli uccelli diversi tacciono, l’uomo che non ha dimenticato gli antichi riti e che teme gli dei, si alza. Ha i piedi scalzi. Facendo schioccare le dita con il pollice segnala la sua presenza, poiché un’ombra leggera potrebbe sorgere dinanzi a lui se egli camminasse senza far rumore, per tre volte si lava le mani nell’acqua della fontana, si gira e mette in bocca delle fave nere che sputa dietro di sé dicendo. ” Io getto queste fave. Con queste fave riscatto me stesso e i miei”. Ripete questa formula nove volte senza guardare dietro di sé: si pensa che l’ombra raccolga l’offerta e, invisibile, lo segua. Di notte egli tocca l’acqua, fa risuonare un oggetto di bronzo, e prega l’ombra di uscire dalla casa. Per nove volte dice ancora: mani dei miei padri, uscite. Solo allora si volta, certo di aver compiuto esattamente il rito” che era anche della stasi, del riposo, del letargo, celebrato dai Celti nella Irlanda di Haloween, l’antico capodanno celtico tra il 31 ottobre e il primo novembre, l’inizio del nuovo anno, la stagione delle tenebre. Veniva trascorso nei cimiteri tra canti, libagioni e racconti: un tributo per entrare in contatto con le anime; una festa anche per i cibi e doni collocati sulla porta delle case insieme all’intaglio delle zucche con dentro un lume per placare le anime. Le zucche le rivedremo in questi giorni spuntare da dietro le finestre delle case e nelle vetrate di qualche scuola.