Fuoco, Acqua, Terra e Luna nell’ultimo degli uomini. 

giovedì 4 ottobre 2012 06:38

di Vincenzo Battista

“San Francesco riceve le stimmate”, titolo di una tempera su tavola, eseguita tra il 1475 e il 1480, (misura cm 136 x 134), attribuita al Maestro di San Giovanni da Capestrano, ma da una tradizione del linguaggio narrativo giottesco, conservata nel museo di Celano (affine alla tavola “Stimmate di San Francesco”, realizzata da Gentile da Fabriano, nel 1420 ca., con la medesima impostazione).

E’ autunno, le acacie hanno ormai poche foglie, ma sulla terra le erbe e fiori sono però sbocciati prodigiosamente davanti a San Francesco orante, in ginocchio (sulla destra un frate che legge un libro, forse Tommaso da Celano), le braccia aperte, le mani alzate per poter offrire, insieme ai piedi nudi, le estremità del corpo ai raggi stimmatizzanti che provengono da Cristo crocifisso, avvolto da ali rosso accese, roventi, circondato da nubi crepuscolari, cupe, tenebrose: così la croce è stagliata in cielo, sulla diagonale pittorica della tavola, dell’evento miracoloso.

Francesco è presentato come “l’Alter Christus”, guardato e ammirato, “copia autentica”, fedele, di Gesù, in un “fermo immagine”: non più il divenire e il mutare del tempo che può attendere, ma una sorta di stasi, tanto che perfino la natura si arresta, anzi inverte il suo ciclo davanti all’unicità dell’evento sopra ogni cosa, delle stimmate, in un’azione – sacrificio che si forma solo in quel momento.

Questo sembra dire la figurazione pittorica tardo rinascimentale: l’immolazione, l’atto di devozione estrema di San Francesco di Assisi con la natura appunto in standby dentro l’evento che si compie, una sorta di fotogramma in attesa che qualcosa si avveri.

Dalla pittura alla narrazione, alle parole: “Le mani e i piedi erano trafitti nel mezzo da chiodi – racconta dell’incontro con Francesco – le cui teste si vedevano nel palmo della mano e nella parte superiore del piede, mentre le punte uscivano dalla parte opposta; erano rotondi nel palmo della mano, e sul dorso lunghi, dove appariva un po’ di carne, a guisa di punti di chiodi ritorta e ribaltata, sporgente oltre l’altra carne. Così pure nei piedi erano impressi i segni dei chiodi, sporgenti sull’altra carne. Il lato destro era poi perforato da una lancia, con una lunga cicatrice, e spesso mandava sangue, di cui molte si bagnava la tonaca e le mutande . . . ” scrive Tommaso da Celano, narratore, teologo, conoscitore delle Sacre Scritture, ma questa volta una sorta di anatomopatologo nella descrizione accurata delle piaghe di Francesco.

Nato nel 1190 a Celano, da nobile e ricca famiglia, cresciuto nella migliore educazione possibile per quei tempi, di pedagoghi privati, e la scuola di agostiniani e benedettini tra il lusso, le corti e le missioni apostoliche, si trovò davanti, e non fu mai più come prima, l’uomo della “Madonna Povertà”, del Fuoco, dell’Acqua, della Terra e della Luna che divennero tutt’uno con le creature; l’uomo vestito di un rozzo sacco e di una particolare croce (l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, il Tau), senza la parte superiore, la “testa”, che esprime parità, uguaglianza e ancora oggi appartenenza.

La notte del 3 ottobre 1226 Tommaso da Celano è presente alla morte di Francesco d’Assisi, toccò le sacre stimmate e da lì, da quella presenza, narrò la vita e la santità dell’ultimo degli uomini nelle paure e nella perdizione del medioevo di buio e morte, il primo ad istituire l’indulgenza plenaria per tutti, dai lebbrosi del lazzaretto agli uomini schiavi proprietà dei feudi, che riecheggia, dopo 786 anni, anche da queste parti. Sì, devo ricordarmi di raccontare questa nostra storia a scuola.

Fotografia Archivio Soprintendenza BSAE L’Aquila