L’Aquila, la Piazza e le sue parole…

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

La piazza “conica” dell’Aquila, la città le dà prima essenzialità urbanistica prioritaria, poi la lascia indifesa nel suo spazio scenico, infine la perimetra con le quinte delle murature civili e non la occupa, così la piazza del Duomo sancisce la centralità del “Nulla” apparente, ma lo vedremo. La piazza delle decapitazioni (assenti i palazzi nobiliari per quello “spettacolo…”), dei processi agli animali stregonici portati lì e condannati, bruciati, arsi vivi davanti al popolo sbigottito; dei viaggiatori romantici del Grand Tour inglesi e tedeschi, e poi degli editti chiodati dall’imperante Curia aquilana sul portale della Cattedrale perché tutti possano vedere, delle prediche religiose dei santi protettori che nell’iconografia sorreggono la città, dei comizi e del sapere, delle adunanze mitiche delle milizie, le esercitazioni militari e i cinegiornali  dell’Istituto Luce, dello sfoggio per chi si vuol far notare, dei cantori epici medievali e delle processioni e culti che possono finalmente ossigenarsi in quello spazio fisico o virtuale pubblico aperto, sito di raduni collettivi per le calamità, delle statue dei santi portati a spalla che sfilano (se non ne approfittano non accadrà più), delle ricorrenze nelle sue radici cristiane non alienabili, delle libbre di zafferano date alle fiamme per punire le frodi e la contraffazione, e con il chiarore le lunghe lingue di fuoco illuminavano le quinte della piazza: forse l’odore di zafferano è ancora negli intonaci delle case e fondaci, un tempo basse e cadenti, botteghe diffuse del popolo minore. La piazza difesa dalle mura urbiche negli assedi rinascimentali, delle vie di fuga per contarsi, e la protesta dei “patrioti” con i loro richiami per darsi forza, quando il fumo avvolge la città persa del capoluogo (non si riprenderà mai più dal suo blasone), amaramente rivendicato, e i celerini inseguono ma nella piazza si fermano. Ecco, si fermano… La piazza, inoltre, uno dei pochi luoghi selciati da sempre. E se poi è inclinata, sebbene apicale la piazza, per ragione carsica o per difetto, quel pallone, non si sa bene da dove sia spuntato, ma che rotola, è l’emblema del moto galileiano appunto della gravità nella “città inclinata”, a ben guardarlo quel pallone, fino al suo punto di caduta del moto di fisica degli elementi come se fosse alieno a tutto questo, è uno spettacolo inseguirlo con gli occhi, ancora quel pallone, da Capo piazza prende sempre più il suo dinamismo di rotazione ed accelera, fino a terminare la sua corsa ai piedi di un anziano a Piedi piazza che si guarda intorno per capire da dove sia venuto questo mistero buffo… La piazza, un qualcosa che forse è “sfuggito” nel non tenere il “campo” della stessa piazza su un asse orizzontale con una “livella”, ma  poi a ben guardare sarebbe stato alquanto desueto in ragione di tutte le vie contigue e intorno che bucano la piazza, la cercano, “salgono e scendono” i vicoli (come vedere una stampa o dipinto di Escher surrealista), e pertanto declina la piazza, accompagna, flette, mitiga la pendenza, ma rimane fedele alla morfologia irrequieta della “Città Nova” che accoglie e sintetizza tutta la luce della Conca aquilana (per chi sa coglierla) quasi fosse un faro che la illumina negli “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Tutti vogliono la luce allora, la piazza cercata, traforata nei suoi accessi, non più pensiero comune inespresso, ma rivelazione della parola poiché da quei budelli tutti le vanno incontro, come cordoni ombelicali di una madre Etrusca (Mater Matuta, la scultura diffusa della dea italica) che allatta, le parole – quelle ci interessano – finalmente, escono nel biliardo della comunicazione, sì è la piazza, e solo allora hanno le sponde… si arrampicano sulle pareti delle case – piazza, salgono e scendono le parole come uno spartito musicale: la piazza nata non per fare domande, ma per avere risposte, farebbe impazzire Arianna e il Minotauro nel suo dedalo di vie dallo schema ortogonale delle polis nel mondo greco in cui è facile perdersi… La piazza, scenografica del mercato nel contado libera le sue parole, voci, dietro quella falsa stasi apparente, si sveglia all’alba, improvvisamente, le parole a volte sguaiate e sconvenienti (in vernacolo) dei venditori (tutto è permesso, fanno parte della coreografia) ti sono addosso e possono, lì, finalmente libere, e in nessun altro logos, tolte dal loro sigillo della comunicazione, quindi sdoganate, urlare alla città, in quel luogo franco, riconquistato ma che in definitiva le appartiene. Voci urlate quindi, rimbalzano, sono lì da secoli immemorabili, suoni antichi, acustica medievale degli antenati, reincarnazione del verso, quasi intimoriscono, ci sovrastano: loro, i venditori, sono interfacciati con la piazza abdicata, una dea che si offre e incarica le muse ispiratrici di spalancare l’accesso al tempio sacro, la piazza sacra dei prodotti delle terre alte che solo lì trovi, non siamo abituati certo, ma è il mercato video – game, un dispositivo che genera impulsi, oracolo, caleidoscopio, corpo in mutazione la gran voce comune, il megafono che le riunisce tutte, le voci e soprattutto le bancarelle  formano un castrum romano insieme a quelle del “mercato minore “: asse centrale della piazza (le contadine delle frazioni con i tavolati bassi), scenario preferito dell’antropologia economica di tutto quello che si vende, nel suo sacello di vuoto d’ambiente urbanistico e tutto intorno la volumetria austera, edificazioni dal sapore serrato, cupo e chiuso, protetto e indifferente, austero e non dialogante “attribuito” , tutto questo, da molti allo spirito storico degli aquilani. Ma c’è la piazza che libera poi un’altra parola, ne possiamo star certi, non più sussurrata, mormorata e intimorita dai vicoli e dalle strette strade, libera invece la parola adesso che diventa una nuova piazza, il sostantivo piazza, disponibile allo scambio, a 360 gradi, negoziatrice di idee, divina sorpresa quando le vai incontro, moneta di scambio, partecipativa, zona franca dove tutto è possibile e nulla è vietato in quel suo palio. Sì, la piazza, è infine il “palio” subliminale di chi vuole possederlo, ma non può portarselo via… Quando scende la sera, indifesa in quell’anfiteatro di montagne che la sovrasta, nella sommità sferica della città, la piazza polmone della città inizia lentamente a pulsare, nella sua solitudine riposa e le ombre l’avvolgono, la proteggono per nome e per conto della sua appartenenza nobiliare decaduta, impotente ai cambiamenti, ma il suo corpo vivo e pulsante sotto il selciato conserva ancora il sigillo dell’antica stirpe degli aquilani.