L’Aquila, l’ombra della Maldicenza sulla città di Celestino V.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Lo spirito, dalle qualità interiori di purezza, ripudia e rigetta, come male assoluto, la maldicenza. Questo spirito si materializzò in un giovane 24enne, divenuto poi Celestino V, vestito di stracci alle pendici del Morrone. Sì, lo spirito di quel ragazzo ha attraversato il tempo, e leggero e puro, incontaminato, è giunto fino a noi, fino a quel perimetro spaziale di gradini, dentro la Porta Santa della Basilica di Collemaggio, dove molte persone si inginocchiano, toccano con le mani le pietre consunte, calpestate,  pregano, piangono alcuni, testimoni di tutto il tempo che è passato lì, quasi si fosse flesso, piegato il tempo, e loro rimangono lì, soli, con il loro spirito, con le loro speranze e dolori. Potessimo decifrarli, potessimo entrare in quella antologia delle persone, piccole narrazioni che scacciano la maldicenza. Un rito, che si spalanca: diaframma tra il “male” maldicente, l’esterno, quello che si lascia alle spalle, e il “bene”, “l’attraversamento” al Perdono. La maldicenza è scaraventata lontano, ma vuole entrare in quell’anello.

Intanto, ai lati della Porta Santa, qualcuno è rimasto lì tutta la notte appena trascorsa. Il “Grande respiro” adesso è continuo, il grande polmone del complesso religioso ha preso a vibrare, per ventiquattro ore, fino alla chiusura della Porta Santa. La Perdonanza è solo questo luogo certo, confessionale, non negoziabile, con le tante forme velleitarie che vogliono prendere la città dell’Aquila e declinarla, sovrapporsi ad essa, ridicolizzarla, poiché la pietà cristiana consente di cogliere l’elemento che in questa città è una Rivelazione, l’annuncio di una condivisa religiosità popolare, in una forza elementare, ma da un altissimo principio morale, quello del Perdono che batte, l’Anticristo, che custodisce nel suo ventre la maldicenza, con l’indulgenza nella comprensione verso la “persona”, al di là di tutte le qualità psicologiche e culturali.

Ma adesso, proviamo ad esporlo ad un bambino, questo racconto che sembra una fiaba, proviamo a descrivere una storia semplice, proviamo a spiegare, che cosa sono la maldicenza e quel ragazzo alle pendici del Morrone. Che cosa risponderà? Da che parte vorrà stare quel bambino?

L’aquila nello stendardo del palio di Sant’Agnese.

Riteniamo che sì, quella immagine grafica dello stendardo, e il suo messaggio subliminale, o se preferite l’immaginario collettivo, lo porta dritto a l’aquila, simbolo della nostra città, un’aquila di Svevia, l’effige da dove tutto partì… L’origine dello stemma è legato alle vicende della città e, in particolare, alla scelta del suo toponimo. L’Aquila è una città di fondazione, nata nel XIII secolo per motivi economici e politici, dall’unione di una moltitudine di villaggi. Secondo la leggenda, la scelta del nome fu dovuta all’apparizione di un’aquila con velo bianco sul becco (avvenimento ritenuto di buon augurio), durante la fondazione della città mentre, le fonti storiche, raccontano Acculum o Acculae, (così chiamato il sito per l’abbondanza delle sorgenti). Ma, adesso, proviamo a porre un tema che riguarda le libertà, e su queste il libero arbitrio: abbiamo mai considerato delle vere libertà? E se queste, fossero, intoccabili, le libertà, che sì, sono state trascinate in quel disegno grafico dell’aquila che campeggia nel palio di sant’Agnese; e se le libertà fossero quelle di guardarsi bene e riflettere, fermarsi, prima, quindi, di “prenderlo” quel disegno grafico, e utilizzarlo lì? Viceversa, riteniamo, che tutto si possa fare, riteniamo che tutto sia permesso, anche quando si tratti di un simbolo semplice, fragile, delicato e apparentemente insignificante, ma di un altissimo principio morale, e direi di più: che si iscrive nel nostra Dna, L’Aquila città, in forma costitutiva e immateriale, da difendere,  l’aquila, ma molto di più, che ha attraversato il tempo con il suo profilo grafico, ha attraversato i secoli: dal primo esemplare di stemma cittadino situato alla base della torre civica in piazza del Palazzo, l’antico Palazzo del Capitano, ai bambini mentre disegnano il rapace sul selciato dei Quarti, l’aquila, sulla porta della Sala della lapidi  dello stesso palazzo municipale, oppure l’aquila bianca su fondo rosso, accompagnata dai gigli angioini, come riportato nel 1320 da Buccio di Ranallo, vessillo nelle lotte degli aquilani contro i reatini ghibellini, fino alle maglie del rugby, sì va bene, nelle insegne delle macellerie e nelle officine, nei negozi di abbigliamento, negli studi notarili sì va bene; nei cruscotti delle macchine, nei tatuaggi sulle braccia dei ragazzi, nei ristoranti l’aquila, nel desk dei computer il simbolo grafico, sì va bene. Forse, allora, sullo stendardo del palio di sant’Agnese e della maldicenza no, non è il suo domicilio, non è suo linguaggio quello, no, non può abitare lì, come non comprenderlo. Come è stato possibile accostare l’aquila alla maldicenza; perché, ci domandiamo, questo atto, contrario nei suoi profondi significati secolari, e spiace constatare che nessuno se ne sia accorto dentro la giostra delle giocose giornate della maldicenza, dove, mediaticamente, tutto si può fare. Potesse parlarci, quel simbolo dell’aquila, che cosa racconterebbe… perché non toglierlo dallo stendardo, si difenda l’aquila, l’aquila libera, perdonate il pathos, si tolga dalla “gabbia”, derisa, non si faccia sfilare con la maldicenza, si restituisca valore, si restituisca il suo tempo, in nome della città dell’Aquila: un atto semplice, ma da un altissimo principio morale quello sì inamovibile (Immota manet), direi, di ricollocazione, in un comune sentimento degli aquilani (forse oggi distante da noi…), e degli antenati di cui noi siamo eredità, attenzione, nei loro sacrifici, nel dolore e nelle speranze di questa città che vissero la compostezza dei lutti anche in nome di quel simbolo, che sullo stendardo del palio, l’aquila, appunto, si vuole irridere mentre viene fatta sfilare. Ma poi, proviamo a pensare, il Giglio di Firenze viene schernito? Domandiamoci, il Leone di Venezia, la Lupa di Siena, il Grifone di Genova e tanti altri delle città medioevali italiane accompagnano la derisione? E infine, una nota autobiografica: molti, ma tanti anni fa, dalla mia abitazione, forse perché situata in un luogo aperto della città, mi capitò qualche volta di vederla, l’aquila; iniziava il suo viaggio da monte Ocre, passava sopra la città, sì, di Celestino V, per poi dirigersi sulle Malecoste del Gran Sasso, con le sue chiazze bianche, sotto le ali, ripiegate all’indietro, trasportata dalle correnti: che spettacolo, con la testa curva sul paesaggio urbano, che forza, che impatto visivo. Un racconto, questo, una narrazione, di due sguardi, unici, originali, due scenari: l’aquila e la città che si guardano…

Il simbolo, l’immagine.

La città dell’Aquila sorretta dalla mano di Celestino V: le calamità, le malattie, le speranze e tanto ancora nell’iconografia cristiana della protezione e del coraggio che diventano narrazioni nell’opera d’arte.

Museo Munda, L’Aquila. Complesso della Rivera, 99 Cannelle.

San Pietro Celestino, protettore della città dell’Aquila. Alcune opere.

-Maestro abruzzese, San Pietro Celestino, seconda metà del XV secolo. Vetri policromi dipinti a grisaille e legati a piombo. Proveniente dalla chiesa di San Flaiano, L’Aquila.

-Giulio Cesare Bedeschini, San Pietro Celestino, anno 1630. Olio su tela, proveniente dall’Arcivescovado, L’Aquila.

-Anonimo, San Pietro Celestino, sec. XVIII. Olio su tela. Nota. Il modello della città dell’Aquila e la tiara, nell’opera d’arte, sono posti su un inginocchiatoio.

-Anonimo, scultura di San Pietro Celestino, fine XV secolo ca. Si ipotizza la provenienza dalla facciata di Santa Maria di Collemaggio. La scultura poggiata su una mensola.

-Lo stendardo della maldicenza.