Testo e fotografia Vincenzo Battista.

La grotta – presidio, utero materno, porta di accesso dei misteri della terra, luogo di eremiti, cavità nel domicilio delle genti primitive, ma fino agli anni ’50, si racconta, “sito di sosta” per il ricovero degli armenti, temporaneo per pastori transumanti diretti nei Piani di “Fugno” e oltre. Tutto è ancora oggi cristallizzato all’interno delle grotte che fronteggiano il borgo di Filetto (AQ). Uomini e animali, risorse della pastorizia, economie familiari residuali, il lavoro in condizioni estreme che la montagna trattiene: questo ci dicono le grotte, diverse, allineate e parallele alla montagna, muta testimonianza nella società degli antenati.Le grotte di San Crisante quindi, chiamate “ Rottoni”, scavate nella roccia sedimentaria con matrice sabbiosa: terra e ghiaia cementate e pertanto fragile da scavare, tanto che al centro delle cavità è stata lasciata una colonna per sostenere la volta e continuare ad estrarre la roccia intorno al pilastro di sostegno, ricavare ulteriore spazio fino a dove era consentito secondo un calcolo empirico. L’interno della cavità ( l’ingresso con pietre a secco di contenimento) e le sue anse, i volumi scavati, la ripartizione per gli ovini e la separazione degli agnelli, le nicchie per gli oggetti d’uso della pastorizia, il ricovero per gli uomini, gli spazi della mungitura, la mangiatoia e per la preparazione del formaggio. La vasca scavata nella roccia per approvvigionare di acqua gli animali (da Fonte Vecchia, il lavatoio nella valle sottostante, l’acqua trasportata nei contenitori in legno). Le grotte potevano contenere circa settanta capi di ovini, una morra costituita da piccoli proprietari residenti a Filetto che si univano per il pascolo e nei profitti della lavorazione del formaggio.Ma prima delle bocche rupestri, concepite secondo un principio di mutua assistenza nei ricoveri, è il sentiero che sale in quota a rivelare lo sforzo antropico lungo il suo tracciato: lì sono state portate enormi lastre di pietra per armare lo stesso sentiero, formano gradoni di terrazzamento, blocchi di calcare infissi nel terreno per creare punti di appoggio per gli animali da trasporto con il loro carico e arginare il dilavamento del sentiero sul pendio: un lavoro immane, smisurato.Per capire questa esile economia locale che ha il suo nucleo fondativo nelle grotte, bisogna risalire la montagna fino alla pieve di San Crisante. Nell’impianto religioso una pietra d’angolo della facciata romanica (ma non era certo la sua collocazione originale), una lastra, residua, che aveva un ruolo in una composizione lapidea di più figurazioni ( gli altri blocchi saccheggiati e dispersi ma con il ruolo di raccontare il Medioevo attraverso i suoi simboli), scolpita in altorilievo mostra un agnello in unico manufatto narrativo, l’animale gira la testa, apre appena la bocca, guarda il suo vello e scruta alle sue spalle nella postura particolare che si pone in allarme, mentre il male – proviamo a pensare – lentamente in agguato nei boschi di Filetto si avvicina, ma il luogo sacro lo fronteggia. “Il Male”: presente, si rinnova, come nell’ambone di Santa Maria Assunta del complesso dell’Abbazia benedettina di San Pellegrino da cui dipendeva la chiesa di San Crisante, e ancora il male scolpito nell’architrave della facciata laterale del santuario delle Madonna d’Appari di Paganica in un cerchio magico – apotropaico. Il versante Occidentale del Gran Sasso e “Il Male” reso plastico è, nell’ immaginario collettivo sconfitto, declinato e dileguato attraverso la fama taumaturgica di San Franco di Assergi e Pizzo Cefalone, suo luogo elettivo, ma a qualche miglia di distanza più a nord del complesso religioso di San Crisante, poiché lui, santo anacoreta, entra nello scenario delle paure e delle angosce, ora può dialogare con le avversità del paesaggio, il male, lo converte, gli chiede il neonato rapito dal lupo e, infine, restituito nella foresta, ai suoi genitori. Il lupo quindi è il male, dentro gli spazi del presidio degli uomini delle paure e superstizioni, metafora del castigo, gorgo dell’Inferno per i credenti la belva, soccombente icona plastica la bestia nascosta nella forra e indicatore costante del male per i fedeli, ed è così che media San Franco eremita nel XII secolo, negozia e pettina la natura ritenuta ostile secondo l’agiografia dei miti. Resta, infine, il suo ruolo salvifico ben presto nella santità molto, molto vicino a quel Pietro da Morrone.Un racconto, questo, una tessitura antropica giunta fino a noi ma che ha il suo inizio nelle grotte. Avvolge economie, spiritualità e gestione del paesaggio che altro non è patrimonio culturale su cui poggiamo i piedi.