Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Giovanni Pascoli, figura centrale della cultura italiana tra la fine dell’800 e i primi anni del 900. Poeta, professore universitario, autore di saggi e critico letterario. La sua poesia cristallizza il paesaggio naturale e la cultura contadina in una raffigurazione di grande umanità che unisce tratti originalissimi. Fu segnato drammaticamente dalla vita familiare, ma anche in questa ritrova lo spirito della convivialità, dei sapori, della cucina tradizionale del territorio – nei suoi scritti – di San Mauro in Romagna (FC), dove nacque il 31 dicembre 1855. Pascoli cita lo zafferano in una preparazione alimentare della ricetta del risotto scritta in versi nel 1905 ad Augusto Guido Bianchi del Corriere della Sera. Questo un passaggio: “…V’ha messo il burro del color di croco e zafferano (è di Milano!): a lungo quindi ha lasciato il suo cibréo sul fuoco…”. Ma lo zafferano, lo sappiamo, non è di Milano, e dopo secoli di fasti celebrativi nel campo medico, cosmetico e religioso dell’abbigliato, e poi i riti esoterici, nell’iconografia e narrazioni epiche: Omero nell’Iliade cita lo Zafferano che serviva da giaciglio a Zeus. Più defilato nell’alimentazione della cultura romana, in particolare nei vini. Lo zafferano, tuttavia, oggi, è possibile focalizzarlo in una prospettiva di “liberazione” della sua appartenenza alla cultura materiale, poiché è in grado di sprigionare una nuova energia, in una diversità della gastronomia: affrancare lo zafferano dalle gabbie che per diversi motivi storici è stato imprigionato, dai suoi paletti, per trasformarlo in natura del cibo: la degustazione, un piatto cucinato dallo Chef creativo (nelle immagini Niko Romito presenta lo zafferano in una ricetta nel libro “ Il pane nell’arca”). Lo zafferano, quindi, nuovo brand programmatico di un paesaggio – nicchia della sapienza, in una quantità applicativa alimentare tale da rendere i nostri sensi colti, pronti a recepire gusto e realtà di questa spezia dai fiori accattivanti, ma duri e puri dell’Appennino Centrale. Lo può diventare lo zafferano, la spezia mito della ristorazione, poiché solo lui, esclusivo, ha unicità paesaggistica, compendiata ai sapori del cibo (ma solo in sapienti mani, e non in quel mondo sedotto dalla follia collettiva – mass mediatica – alla ricerca del cibo mangiato e senza consapevolezza), ma viceversa pronto a sprigionare una forte energia identitaria, nel panorama globalizzato e nella sua dimensione di schizofrenia dove il cibo ha perso la sua originaria conformità a favore, come si diceva, di un trend mediatico e invasivo dove molti si accalcano. Il cibo – zafferano, quindi, può raccontare il paesaggio e lo sappiamo, i beni ambientali e lo sappiamo, a pochi chilometri da noi, se non addirittura dentro le mura dell’Aquila, dove si coltiva nella “solitudine dei numeri primi…”: l’etno- gastronomia, a nostra insaputa…una visione.