Il mito alchemico della “pupazza”.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

“Prendevamo una pecora morta e facevamo “il carnaio”, cominciavamo a spostarla con “le strascine” fino alla grotta dove attaccavamo la pecora ad un albero. Facevamo la posta, era il 1940, nel Cavuto, ai Grottoni di Monte Urano (Bassa valle dell’Aterno). Siamo stati tre notti e il lupo non veniva, era il mese di dicembre, avevamo le coperte e il fucile. Il lupo poi fu ucciso da un altro del paese”. Angelo Santilli era nato nel 1911. Quando l’ho incontrato, come il personaggio Jose Arcadio Buendìa, ” la sua immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia…”, ha scritto Gabriel Garzìa Marquez nel romanzo “Cent’anni di solitudine” che gli valse il premio Nobel per la letteratura nel 1982. Angelo Santilli la sua Macondo l’aveva trovata a Castelvecchio Subequo. Il suo immaginario e la sua capacità di reinventare il mondo ce l’aveva fatta trovare sul tavolo: un’apparecchiatura magica, così semplice e prodigiosa, nel suo moto dinamico perenne, che continuava ad oscillare davanti al suo ritratto appeso alla parete del 1936 di operaio militarizzato emigrato in Africa. Inventore, raccoglitore di erbe medicinali, luparo, pescatore, boscaiolo e pirotecnico; guaritore e terapeuta, puparo e chissà quanto altro oltre la sua vera professione, quella di un patriarca ” delicato e leggero” nella sua laboriosità che lo ha inseguito per tutta la vita, come Buendìa nel romanzo di Marquez: “La voce e l’ingegno che arrivano da un universo sconosciuto seducono e incantano il mondo intero…”. Si zappava la terra come schiavi – raccontava. “Una salma di legna, di nascosto, la notte la portavo a destinazione”. Con il granturco preparava il parrozzo, che ha il sapore di “quando crepa la terra nel mese di agosto”. Nelle notti di plenilunio costruiva i “brevucci” e le formule magiche curative contro i malocchi, i mazzamurielli e le pantasime, esseri soprannaturali di un mondo magico che implodeva nel ventre della montagna rivelatrice. Quando la terra si ammalava: ” diventa secca e con un acquazzone, se tu vai a zappare hai i “chetigli”, “sgarra”, escono i “restupponi” – diceva; la pesca nel fiume Aterno la praticava con le mani nude. La “micischia” si preparava con una pecora magra: ” bisognava spellarla, dissossarla, salarla e appenderla dentro al camino e dopo sei mesi la mangiavi. Nei ponte del fiume, era il 1943 – continua il suo racconto – i tedeschi misero le mine per farli saltare. Ad una arcata ho tolto gli inneschi perché ero pirotecnico; mia madre piangeva e diceva di fermarmi”. E poi i prigionieri:”C’era un tenente pilota e un giovane inglese che si disperava. Li avevamo nascosti nelle casette Colananni e nella Valle dell’Inferno (ha inizio da Forca Caruso): li spostavamo continuamente, i tedeschi li cercavano… Consegnammo ad una guida il pilota che voleva mettersi ai piedi un pezzo di paracadute: gli dissi di non farlo perché gli avrei portato i calzini…”. Infine la “pupazza” che ha costruito. Dallo sguardo, dalla fisicità e dai tratti inespressivi, si accendeva circondata dai lampi, luci e scintille, incantava quegli sguardi della gente misteriosamente presi da questo feticcio che Angelo Santilli dentro il suo cono di canne intrecciate e cartapesta, nella sua struttura goffa cercando un’armonia in qualche passo di danza, faceva oscillare. A noi piace ricordarlo così, Angelo Santilli, dentro la pupa, nel suo involucro di crisalide, come un “vento” si liberava nelle piazze insieme ai suoi simboli del ” bene e al male” nel ballo, le passioni, gli umori delle misteriose forme arcaiche e profetizzanti che la gente leggeva, interpretava. ” Ricordo, quando avevo quindici anni. Diceva mio padre, fai ballare la pupa…”.