Primavera. I petali bianchi della longevità che parlano alla notte. Le Conche aquilane. Altopiano di Navelli e Valle Tritana.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Speranza, costanza e longevità, i fiori della pianta di ciliegio e di mandorlo considerati divini dialogano con il cielo, gli dei li osservano, e vivono con la nascita primordiale dell’universo di Magna Mater (Grande Madre). Costituiscono la verità, la purezza, fiori della rinascita che lasciano l’inverno ma per poco, per dare poi spazio ai frutti. Sono i primi alberi a fiorire, annunciano la primavera imminente, la fecondità. Altopiano di Navelli e valle Tritana fino a scendere sul labbro carsico declinante della piana di San Demetrio né Vestini, dove il ciliegio (pianta tintoria utilizzata per lana e cotone e poi tessuta al telaio in legno) insieme al mandorlo più diffuso, ancora oggi, si può osservare nelle lunghe distese paesaggistiche, testimonianza di una economia di sussistenza del passato nei campi aperti, senza confini, le terre aquilane, soprattutto in questo periodo di fioritura. Le famiglie lavoravano le piante con grande attenzione, potandole, liberando i rami secchi, le piante infestanti (vischio), aratura e poi con il concime naturale intorno al fusto per la crescita e manutenzione. Ma non bastava. Le processioni di primavera, il rito delle rogazioni praticato fino a qualche decennio fa ( Papa Francesco, a Roma, ha pregato con il crocifisso che salvò la città dalla peste nel 1522. Fu portato allora nei rioni, e oggi contro il Coronavirus), la benedizione delle campagne nei quattro punti cardinali, cerimoniale liturgico del clero secolare in una suggestiva esortazione, precipitata nel medioevo, metafisica, con l’intento di mitigare gli elementi: scacciare la grandine, siccità, e soprattutto carestia figlie del demonio. Nel periodo di raccolta, le ciliegie (visciole) e soprattutto le mandorle (giugno e settembre), vendute ai grossisti, costituivano per i contadini una nicchia economica rilevante per i fabbisogni familiari. Ma di notte, racconta una fiaba popolare rilevata nella zona geografica descritta (ricerca sul campo per il volume “La terra dello zafferano, a.  1989”), solo di notte con il cielo stellato di primavera i fiori si animavano e potevano infine parlare, liberarsi… Tante bocche che si schiudevano e vibravano, dialoganti, tra loro, si raccontavano, dai rami e da albero ad albero fino all’alba: una lunga catena di voci notturne da San Demetrio né Vestini, Barisciano, Navelli a Capestrano, si potevano ascoltare e decifrarne i suoni, le parole dei fiori bianchi che si trasformavano infine in bagliori luccicanti, diventavano una miriade di luci nel buio delle campagne per raccontare la storia senza tempo della terra e del lavoro, sì ,in quei piccoli boccioli e petali aperti: i desideri della la civiltà contadina, primitiva, selvaggia, ma innocente.