Testo e fotografia Vincenzo Battista.

In quella enorme stamberga, oscura e inospitale, baracca fatiscente e desolata, magazzino dalle alte volte, oppure il luogo è inesistente topograficamente, ma presente dell’immaginario dello stesso Patini, tuttavia è certa la qualità del contesto, dell’oggettività del luogo – lavoro.
Teofilo Patini crea il suo brand mediatico ante litteram, iniziando da una prospettiva aerea – parliamo di pittura, olio su tela – schiacciata e comprimente nell’opera “Ciabattino” in cui il personaggio, assorto e incurante nel suo pragmatismo artigiano, così ci appare. Il quadro fu esposto nel 1873 nella mostra “Promotrice napoletana”. Il realismo nella pittura elevato in una mission è al di sopra di ogni sospetto accademico, e lo vedremo, in una ricerca, un’indagine dai tratti sociologica sulle condizioni delle classi lavoratrici. La pittura trascende, non si limita all’estetica compiacente, non è immaginata per piacere e appendere nei salotti buoni, ma messa sotto un osservatorio centimetro dopo centimetro da Patini per scuotere “l’anima”. Il pittore disegna prima, prende appunti prima, schizza con il guazzo dettagli prima e li annota, e poi libera la scenica ambientazione assemblata con delle aggiunte di particolari ( se poi saranno tali, o se li ha visti realmente, se mai sia stato lì…) poiché, facciamo un esempio, se si osserva il quadro, sul tavolo del ciabattino, è dipinto un coniglio nero rannicchiato appena “pittoricamente” accennato: una sorta di “capriccio”, oppure veritiero. Ci può stare in quel contesto, perché no? Il pittore va oltre il mero descrittivismo, trascende la conoscenza. Il ribelle Patini, l’anticristo “dell’accademico” e di maniera quella leggiadra e borghese per intenderci, eversivo, è lui che sì, nella pittura sovverte la narrazione pittorica oltre quel mondo oleografico. Stigmatizzare l’ingiustizia, proviamo a pensare, è questa l’opere di Patini che, con “ l’Erede”, cioè sofferenza e miseria, morte prematura scriveva Patini “ E’ lontano dei nervi scoperti e porta guanti e calze di seta”. Equivale tutto questo alla discesa di un Inferno sociale di chi non ha colpe se non quelle di esistere. La pennellata adesso, guardiamola, il campo visivo schiacciato come se avesse usato un obiettivo fotografico “lungo” di una fotocamera. Il realismo italiano è qui, la pittura sociale, una declinazione ad un modello di pittura Post Impressionista. Il dissenso, l’idealismo umanitario: la società contemporanea e le riforme politiche e sociali mai attuate, le liti dominanti, l’alta borghesia e il latifondismo che schiacciavano giù, sempre più giù, la miseria e la degradazione nelle contrade agricole fino ai bassifondi dei villaggi, e lo sfruttamento, l’ingiustizia nella trilogia appunto delle tele pittoriche : “L’erede”, “Vanga e Latte”, “ Bestie da soma”, quest’ultimo sulla condizione delle donne. Solo il viso e le mani del “ciabattino” , torniamo ancora nella pittura, hanno “colore”, una concessione questa, dove le tonalità della stessa mano e del viso con l’orecchio declinano su un magenta: la vivacità sembra riprendere quota cromatica nelle pennellate che mostrano l’ossatura scarna della plasticità della mano, l’accurata gestualità dell’azione dell’indice che preme sul punteruolo, il viso con la folta barba e i baffi evidenziati e il copricapo quasi si volesse evidenziare il logo di un mestiere. In questo ideogrammatico, avvolgente corpo leggermente piegato, il “ciabattino” poggia i piedi sullo sgabello con le cosce coperte da una stuoia in pelle su cui appoggia lo stivaletto e, sullo stesso sgabello, gli arnesi e i materiali della lavorazione imminente. Non c’è bellezza, estetica nel quadro, ma il valore della pittura rimanda a tutt’altri scenari che forse, possiamo, provare a cogliere…

Munda, L’Aquila. Ex Mattatoio. Nuove acquisizioni, e tra le opere d’arte della nuova collezione acquistate dal Museo Nazionale d’Abruzzo, tra la fine del 2022 e il 2023, “Il ciabattino”, 60 x 45,5 centimetri, olio su tela, se ne conoscono tre repliche a favore del mercato, il mercato dei richiedenti. Teofilo Patini nato a Castel di Sangro nel 1840 e scomparso a Napoli nel 1906.

Intorno al 1874 vengono creati, per esempio, gli “Impressionisti: pura estetica, effetti cromatici, pittura di tendenza, per piacere, opere leggiadre per accattivare il gusto. Poi verranno i Post Impressionisti: tutto cambia, si fa “ricerca”, scendono in campo i grandi ( Picasso dirà che è “salito” sulle loro spalle per osservare…). Si parla di ”linguaggio”, si dipinge la semantica della pittura vissuta come dramma esistenziale che conduce agli abissi della propria esistenza ( Gaugain, Van Gogh, Cezanne) come nessuno mai nella Storia dell’arte della fine dell’Ottocento che a loro insaputa aprono al ‘900, e si defilano da una Europa della Belle Époque modaiola e trend. Chi lo avrebbe mai immaginato in quegli esiti appena citati, rivoluzionari, dei tre artisti, soli, disperati e raminghi: così la loro vita ma solo per chi sa “vedere”, capire, andare oltre… Patini è molto Post – Impressionista con quelle sue pennellate veementi, Patini, le cui pennellate non cercano l’estetica del compiacimento, ma nascono da una intimo retaggio culturale, dal proprio patrimonio spirituale, quasi una stirpe del passato per le periferie del lavoro, poiché, forse, Patini stesso vuole “possedere quello che vede” in un processo di compenetrazione del soggetto rappresentato alla stregua degli stessi grandi e inarrivabili del Post- Impressionismo: Van Gogh, Gaugain e Cezanne come detto.




I materiali presenti nella pittura. Il suo pensiero diventa narrazione.


Le colle per unire i materiali, allargascarpe in legno, vernici. Lo sgabello, il berretto a visiera, i chiodi tenuti in bocca tra le labbra, il tavolino con i poggia piedi, la cera d’api, il blocco di grasso di maiale, gomitoli di fili e pezzi di cuoio del pellame di vitella, battitura e inchiodatura dei tacchi e delle suole con il martello, ma prima di questo provvede a bucare la suola con uno stilo per poi inserire le borchie metalliche, come era consuetudine per quei tempi. Il pezzo di lardo, il tronco per battere le suole, tascapani appesi ai chiodi, la pipa, barattoli con le vernici, stracci sempre appesi, il copricapo, il contenitore in terracotta su un treppiedi in ferro per cuocere le patate e i fagioli (da qualche parte lì c'è un camino), le conche di rame e il paiolo, un tavolaccio appena accennato, un cesto di vimini e mensole con i calchi delle scarpe e stivaletti. E poi quella pipa con un lungo becco, appesa. Nella pittura l’avambraccio sinistro del ciabattino inserito nello stivaletto da donna per fare pressione, con le stringhe, molto alla moda nella seconda metà dell’Ottocento, mentre la mano destra con un punteruolo entra nella suola per inserire i chiodi e le borchie aggettanti che la proteggono dal consumo. Un copricapo in paglia e qualche libro in un cromatismo sull’ocra che infine diviene un punto focale desueto nell’intera rappresentazione, dove si poggia lo sguardo. Tutto è avvolto comunque da una luce tenue che proviene da una ampia porta spalancata. Infine il colore determinante, monocromatico, bruciato, toni mescolati al petrolio e guazzo con pigmenti di marrone per lo scenario alle spalle del “ciabattino", cromie di mezzi toni, freddi, in quel contesto desolante, “privo di valore, così si vuole”, è appunto Patini che ci dà questa restituzione come fossero varianti di gusto insolito. Le forme di legno di varia foggia e misura, il treppiede in ferro sul quale infilare le scarpe a tre bracci, anche per la battitura dei chiodi. Il punteruolo con il manico in legno, aghi per cuciture, scalpelli rotondi, lesine in ferro, martelli, incudine, suole e stivaletti riciclati per il recupero delle sue parti.