Testo e fotografia di  Vincenzo Battista.

In piedi, sul carro trainato dal cavallo, si è lasciato alle spalle il castello Orsini prima di imboccare il lungo asse viario, una sorta di decumano, che taglia in due parti uguali la città. Davanti a lui, ex pescatore del Fucino, l’agglomerato urbano diventato con grande meraviglia sfolgorante, irriconoscibile fino a qualche decennio prima, quando il lago si gonfiava e si spingeva fino ai bordi del piccolo borgo, pavimentato, ora, con basali, pietra e selci; con le quinte dei palazzi signorili di tre e costruiti anche a quattro piani, dai balconi in pietra, in uno sviluppo edilizio senza precedenti, pari a un “new deal” della città che, con il prosciugamento del lago da parte del principe Torlonia, terminato intorno al 1876, e ai massicci investimenti e l’afflusso dei capitali, vedeva realizzarsi il grande progetto di Avezzano ‘città di frontiera’. ‘Aperta’, di nuova immigrazione, con una manodopera specializzata in una babele di dialetti: maestranze, coloni, famiglie contadine che provenivano in particolare dall’Italia centro-settentrionale, e nuovi mestieri. Una città che aveva accelerato il suo corso demografico, e si riorganizzava, fino a raddoppiare la popolazione stimata alla fine del XIX secolo intorno a 11.000 abitanti, su un latifondo da coltivare con nuove tecnologie e i prodotti agricoli, la nuova ricchezza, il mito della terra, che provenivano da quei 16.000 ettari del principe. Unico proprietario delle fertilissime terre emerse dal lago prosciugato. Un esodo quasi biblico di subaffittuari, di commercianti e imprenditori per la nuova città abruzzese, pensata per proiettarsi su Roma con le prime fabbriche, gli insediamenti industriali e le nuove infrastrutture ferroviarie e dalla fattura raffinata dei suoi palazzi ottocenteschi, tra i quali spiccava anche quello disegnato dall’ingegnere Brisse, progettista dell’équipe che condusse l’imponente opera idraulica dal bacino fucense che doveva segnare appunto uno spartiacque storico tra i destini delle comunità locali e il nuovo corso della storia economica di questa parte dell’Abruzzo interno. E’ la mattina del 13 gennaio 1915 quando il carro è ormai giunto lungo corso Umberto I , ‘il rombo terribile, lontano dapprima e che poi, via via si avvicinava‘ fece alzare il cavallo che scalciò con le zampe anteriori ‘quel vento che portò con sé un disastro un disastro colossale sulla città‘ e la distrusse spazzandola via, alle 7.53, radendola al suolo con una violenta scossa che raggiunse l’XI grado della scala Mercalli, davanti a quel carro, a quel pescatore e alle speranze di migliaia di uomini ormai sotto le macerie. In trenta secondi, nel Fucino, morirono 30.000 persone, nell’epicentro poi localizzato nel margine sud-orientale della Conca: uno dei terremoti più violenti della sismologia italiana in un settore geografico considerato dai sismologi poco significativo, secondo però solo a quello di Reggio Calabria e Messina, del 1908.
Su 11.279 abitanti ad Avezzano ne morirono 10.700. ‘Il pestifero lezzo della putrefazione e dovunque lamenti, invocazioni e il canto funebre di una donna davanti alle macerie‘ è forse una delle descrizioni più drammatiche insieme ai ricordi di un giovane,Secondino Tranquilli, dell’impotenza davanti all’immagine catastrofica di una umanità piegata, cancellata per sempre. Molti anni dopo, nel 1949, la memoria e i suoi lutti, quel giovane li trasferirà nel romanzo Uscita di sicurezza: ‘E la notte portava i lupi‘ scriveva Ignazio Silone, attirati dall’odore di morte e dal bestiame che veniva riunito all’aperto, mentre le bufere di neve avevano coperto il paesaggio desolato e ‘la maggior parte dei morti – continua Silone – giacevano ancora sotto le macerie‘. La notte si accendevano grandi falò, tenevano lontano i lupi che erano scesi a valle, e il loro ululato, sempre più vicino, non lasciava riposare neppure ‘gli atterriti superstiti che vivevano accanto alla case distrutte‘.

 

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