Amiternum, lontani echi della pietra scolpita. Adesso, qui.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Davide Zecca, pilota e titolare dell’azienda, istruttore e collaudatore di elicotteri (li assembla e costruisce). Con il suo elicottero in codice in VDS i – Ciarli 103. “Yo – yo”, serie 1, ci siamo alzati dall’aeroporto dei Parchi – Preturo (L’Aquila). Ruotiamo in circolo intorno all’anfiteatro di Amiternum in una visione esclusiva. Le immagini (c) copyright.

Amiternum – “Ai lati del fiume Aterno” il suo significato (nel 290 a.C. citta sabina conquistata dai romani). Le pietre scolpite della narrazione. Un frammento di rilievo rinvenuto nell’area archeologica del teatro e dell’anfiteatro, ubicata nella periferia nord dell’Aquila,  raffigurante una civetta che si nutre nella caccia notturna. Altro non è che Minerva, colei che vigila a favore della notte, dove vizi e bassezze umane sono tutt’uno con l’oscurità, si insinuano, ma l’occhio della civetta e lì che vede, sì che vede, nel buio, dispositivo nelle interiorità metafisiche dell’Io, metafora severa dello sguardo vigile e non negoziabile: l’umanità non è lasciata straripare…, intorno all’anfiteatro sacro di Amiternum: questa è narrazione. La civetta nel mondo romano è sacra, predatrice, dal volo silenzioso e leggero, dallo sguardo attento e acuto, nessuno, come Minerva, così ritenuta nell’agro romano di Amiternum, può sfuggire all’implacabile attacco. Morte, notte e passività apparente per i Romani, qui ad Amiternum, gli antichi antenati e i loro messaggi. Minerva – saggezza con l’animale civetta a lei consacrato (l’elmo greco con la civetta). Ma veniamo ad un altro frammento riemerso. Il suino scolpito raffigurato da un cassettone in pietra. Mammelle, vulva della scrofa, le parti più apprezzate della carne, poiché ritenute utili contro il malocchio per i Romani. Il maiale, animale sacro a Demetra, dea dell’agricoltura. La predica del culto demetriaco era infine il sacrificio del maiale (V secolo a. C.), in particolare della scrofa gravida che evocava il legame della dea con la fertilità e la fecondità. Demetra portava l’epiteto di “colei che uccide i maiali”: veniva immolato e consumato dagli adepti. Rinvenimenti, testimonianze letterarie, sculture e frammenti, modelli in terracotta della dea, fittili con la stessa dea e il porcellino: linguaggi iconici subliminali, devozione e rispetto di lei in trionfo, nelle campagne, per le gentis, quello che più tardi noi saremo. Un altro frammento di Amiternum tratto dagli scavi archeologici nell’area. Il fiore stilizzato, elemento decorativo, adottato nell’architettura romana nei cassettoni, lacunari, frontoni, architravi e nelle lastre commemorative. È una piccola rosa canina dai petali offerenti (rosa chiaro, bianco e rosso), selvatica, dalle foglie che si aprono a raggiera, molto comune nei prati della Conca aquilana. Il motivo floreale inciso nella pietra come elemento di positività e di buon auspicio in una narrazione anch’essa allegorica della cultura romana. Sappiamo che la rosa scolpita sopravvive, attraversa il tempo e i secoli e la troviamo, presente, ancora oggi, negli stipiti e archi in pietra dei portati aquilani e delle frazioni. Accoglienza, i petali che si schiudono, disponibilità con la casa “aperta”, che comunica con il linguaggio della pietra scolpita. Oggi. Per secoli l’area di Amiternum è stata vandalizzata, saccheggiata nelle pietre dell’impianto di copertura, quando poi le prime campagne di scavo sistematiche del 1879, con il principio di tutela, individuano e annotano che, già nel 1831 (ci si occupa e trattano anche di studi e cartografie del secolo precedente e oltre), la cinta esterna esistente con le arcate in mattoni ed alcune tracce dei gradini per gli spettatori all’interno, quest’ultimi importante testimonianza, ormai scomparsi. L’anfiteatro di Amiternum dalla funzione pubblica, partecipativa, ellittico manufatto, dallo spazio centrale piano, l’arena delle gare, spettacoli, giochi e combattimenti gladiatori, circondata da gradinate disposte in file concentriche (si ipotizza 6000 spettatori) e attraversate da corridoi radiali, ma solo nel nostro immaginario possiamo ricostruirle, nella nostra percezione, poiché oggi non è altro che una sorta di reliquario, certo visitabile, ma muto emblema, anima del nostro passato e meraviglia del nulla, solitario reperto, un fossile a cui non chiedere. Ma la complicità di questa visione di Amiternum – simulacro appunto vuoto e muto, è nel negato diritto di un bene pubblico,nel riuso di un Bene culturale, quindi, proviamo a pensare non più deposito di mattoni svuotati dal suo contesto, ma, in un ruolo per riaffermare una riqualificazione da attualizzare, per farne sito degli eventi pubblici, in tutte quelle sceniche visioni oggi della comunicazione partecipativa. Intervenire, per riportarlo alla “luce”, restituire l’importanza che merita, riqualificare l’area geografica con un nuovo dialogo con i Beni culturali, farne un sito strategico della comunicazione che affonda le radici nelle nostre antiche matrici identitarie di una civiltà di frontiera dell’Appennino Centrale. Il riuso colto, una visione, come accade in altre aree del Paese sui valori archeologici e paesaggistici propedeutici. Questa è l’eredita di una società che non vuole essere blindata dalle montagne, ma solo in ragione di una forza che riesca a catapultare, a “superare” in uno scenario del nuovo tempo, soprattutto nelle nuove generazioni, loro, le uniche, che possano recepire queste motivazioni di modernità ed applicarle, oppure, l’anfiteatro di Amiternum, proviamo a pensare, non resterà altro che l’incipit di una scenica “fiaba” per bambini, che si possa ancora narrare e accontentarci, ancora per secoli…