Testo e fotografia di Vincenzo Battista.
Gobbe e piccole doline, crateri e fosse erbose, ondulano e muovono il paesaggio, rischiarato dalla luna, spalmato da una foschia, bassa, schiacciata al suolo, ma ancora per poco. Campo Imperatore si presenta così, davanti a noi. In cammino, il nostro obiettivo è all’orizzonte: un profilo tenue si scorge che diventa sempre più netto e rivela la sua sagoma, alzata al suolo, incerta. Ci avviciniamo. I primi latrati nella profondità della notte, lontani, provengono proprio da lì, ma diventano sempre più netti man mano che avanziamo, incalzanti da tutte le parti quei latrati, più forti li sentiamo addosso; poi quel fischio lungo e spezzato, liberatorio, inatteso: un richiamo che li blocca, ritira i mastini abruzzesi in formazione quasi militare e pronti all’attacco forse dai fianchi, di fronte a quel paesaggio lunare che scivola oramai, come una rasoiata, nelle prime luci dell’alba.
Lo stazzo si è “aperto”, il varco per entrare è servito, sembrano dirci i cani abruzzesi – maremmani, diffidenti e inquieti escono dall’erba alta in questa savana del Gran Sasso. Ci scortano in questo pianeta dell’accampamento pastorale del “Terzo delle Veticole” fatto di recinti e guadi, pecore, mandroni, imprecazioni e antichi idiomi, capanne in legno, oggetti della pastorizia e pastori che ci vengono incontro per vedere chi aveva potuto rischiare tanto “ a quell’ora di notte”, ci diranno più tardi. Dietro di loro, Aromatario Leotizio, il padrone dei tremila capi dentro lo stazzo sotto monte Prena, il primo armentario di tutto l’altopiano, l’icona della pastorizia a Castel del Monte; il “transumante” dannunziano, da generazioni; l’interprete, per tutta la giornata che trascorreremo insieme, della tradizione orale ( quella che non conosciamo, non quella delle fonti bibliografiche), ma soprattutto un Guru della montagna che incanta: “ La notte era il giorno e il giorno la notte” raccontava infine, cantore della memoria cruda e dolente, lontana da quella oleografica dei pastori. E’ cosi inizia il suo racconto:” il pastore in tutti i momenti era sveglio, non si dormiva mai, sempre a camminare, dopo fatta la guardia alla mandria di notte all’alba di mungeva, poi si pascolava anche se pioveva”.
Nelle Puglie c’era un contratto con i foggiani, fatto dagli antenati nostri, che qualunque cosa gli vendevi dovevi dargli il cinque per cento in più. Vendevi gli agnelli, chiedevi cento e te ne davano novantacinque; regalavi poi cinque chili di formaggio ogni quintale di prodotto. Nei rapporti con i foggiani c’era da stare attenti, c’era da stare zitti se no, venivano di notte…. Ogni pastore doveva riconoscere quelle pecore che avevano gli agnelli, il vero pastore doveva capire che quell’agnello era figlio di quella pecora dalla fisionomia. Se non lo riconosceva significava che non sapeva il mestiere”, oltre le convenzioni quindi, il paesaggio storico e simbolico, il valore del tempo in questa leggenda degli uomini e del lavoro, sconosciuto e misterioso, che non finirà mai di stupirci.
Fotografie.
La pecora uccisa viene messa sul tavolo, si incide con un coltello la zampa e si separa la pelle dalla carne. Con una canna, soffiando sull’incisione, si gonfia la pelle che si separa dalla carne: la pecora è spellata. Fasi della lavorazione del formaggio.