I fiadoni, il cibo del rito e del viaggio… L’Aquila, il Gran Sasso d’Italia e i pani cerimoniali.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Le fotografie.

La preparazione dei fiadoni, rustici, schiacciati, fatti in casa. Preparati da V. B. (Senza prendersi troppo sul serio!).

I fiadoni di un’azienda locale di un borgo del Gran Sasso d’Italia, nella loro forma tipologica consueta e diffusa oggi.

L’uso.

I fiadoni di Castel del Monte e il loro utilizzo: dalla Pasqua alle ricorrenze nel corso dell’anno e cerimonie familiari.

Pani cerimoniali e forme alimentari allegoriche a Castel del Monte (AQ), il fiadone, gonfio e farcito che “respira” nella sua cottura al forno, si trasforma, metabolizza gli ingredienti e li modifica rendendoli nuovi e diversi, di buon auspicio, e infine rituale nell’offerta dell’alimento al vicinato del borgo, il giorno di Pasqua. Donato, partecipativo, il cibo dei fiadoni è esposto, rappresentato, mostrato come oggetto di culto nelle case di Castel del Monte, una sorta di omaggio da condividere non solo per la qualità alimentare, ma per i significati insiti nello stesso pane cerimoniale apotropaico: i fiadoni del buon auspicio, della fratellanza e della comunione, delle alleanze sociali nell’ambito del gruppo di appartenenza.

Come la Pasqua, significato di “Passaggio”, attraversamento simbolico, rinascita dal buio alla luce e la nuova vita secondo i dettami del Cristianesimo, così i fiadoni si posizionano nella cultura popolare del cambiamento calendariale della stessa Pasqua ed entrano, dopo la Quaresima, nella festa e la sua celebrazione: il cibo e i pani rituali che liberano il digiuno, così appunto i prodotti della consuetudine locale di Castel del Monte, in primis il pecorino stagionato (canestrato) dai pastori del paese del Gran Sasso, preparato e racchiuso nella sfoglia di acqua, farina e olio d’oliva purissimo e quindi nell’impasto dei fiadoni con il  pecorino e uova fresche, ingredienti che segnano il carattere autoctono del prodotto alimentare ( forse avrebbe bisogno dell’acronimo “ DOP”, marchio di tutela giuridica dei borgo di appartenenza). È il pane – parola in definitiva che evoca, rappresenta e convince, un segno – cibo dagli alti valori energetici nell’insieme delle sostanze nutrienti, materiale e forma che si compensano nell’impasto e cottura, e poi identificato nei fiadoni in uno stile “etnico” nelle origini di Castel del Monte.

La modellazione dei pani è dunque cerimonia, impasto di acqua e farina per produrre una comunicazione, la forma nutre e veicola l’informazione che riconduce al paese. Sapore, odore, colore e tatto ci forniscono i caratteri dell’alimento, interfacciati con la Pasqua.

Nella Roma Imperiale, invece, l’alimentazione di un prodotto analogo ai fiadoni veniva preparato sotto il coppo (tegola in terracotta), la forma più antica di forno delle famiglie romane appartenenti alla piccola e media aristocrazia: una tegola fatta cuocere sulle braci fino ad arroventarla e sotto veniva posto l’impasto di farina con latte, formaggi, olio, miele, uova.

E se la Pasqua è “Festa”, transizione, cammino…questa si associa ai pastori nomadi israeliti che, molto prima della nascita del Cristo, celebravano il culto della primavera, il suo ritorno, poiché sono sempre i pastori protagonisti migranti nell’equinozio (quest’anno l’equinozio è stato il 20 marzo) di primavera: passaggio del sole dall’emisfero meridionale a quello settentrionale, riferimento dell’oscurità e del freddo alla luce e al calore, in definitiva alla resurrezione dell’anima (gli stessi e analoghi significati della festività cattolica), ad imprimere il significato di riconquista dello spazio fisico e mentale nei loro territori di pascoli attraversati.

I migranti, transumanti adesso. Lungo il tratturo, da Castel del Monte, i fiadoni venivano preparati e portati con sé dal massaro o vergaro dentro le bisacce, oppure il buttero, cioè i vertici (il censo nella pastorizia) della complessa struttura mobile organizzativa della transumanza, negli sposamenti e le soste lungo le piste dedicate; forse anche le famiglie dei “cavallari”, ma non certamente i pecorai o i “biscini”: loro, schiavi – poveri e senza diritti, senza niente chiedere, venivano solo sfamati, forse qualcosa in più dei mastini abruzzesi che controllavano il gregge lungo il tratturo, sì, come nel romanzo “Fontamara” di Ignazio Silone: “…Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni”…