Il mito del ghiacciaio del Calderone. Gran Sasso d’Italia.
Testo e fotografia di Vincenzo Battista.
“. . . Tra il monte Santo Niccola et il Corno Monte, dove vi è la neve alta quindici o venti piedi, e più in alcun luocho dove la nieve e ghiaccio sta perpetuamente. E quest’è una quantità d’un grosso miglio di lunghezza, e di larghezza più di mezo miglio, della quale puoco o assai se ne disfa . . . ”, osserva, meravigliato e scrive così del Calderone Francesco De Marchi, il 19 agosto 1573, nella cronaca di un’ascensione, la prima, documentata, sulla vetta del Gran Sasso d’Italia. “Il detto Monte era trenta du’anni che io desiderava di montarci sopra – esordisce De Marchi – Così andassimo d’agosto l’anno 1573” nell’impresa, ardua, per quei tempi, ma che ha bisogno di guide esperte, e “preghiere”, convincimenti, insistenze verso i locali che conoscono la montagna, e se queste non bastano si passa ai premi . . . ”Mi fu detto che vi erano stati certi chacciatori di camoccie (camosci) che vi erano stati sopra, e così dimandai à molti di loro e non trovai se non uno . . .” su questi sentieri, che andrebbero storicizzati, segnati, nella loro dimensione epocale, di vie estreme, che comunicavano con un mondo da scoprire, “l’orrido” e inquietante: un’idea per il Parco del Gran Sasso, immutati nei secoli, che “attaccano” alle radici nell’ascesa il totem dell’Abruzzo, il Corno Monte, maestoso davanti a noi, fermi su un tracciato di Corno Grande, “padre spirituale”, su cui si alza lo sguardo (lo sa bene chi vive nelle conche intermontane), mentre ci muoviamo davanti a lui, sulle tracce del racconto dei cacciatori di “camoccie”, verso nord-est, verso il cuore pulsante dell’intero appennino che si è stipato all’ombra del Gran Sasso, e non solo è citato quale il più meridionale dell’Europa, ma è sempre più affaticato, ansimante, trasuda, dato per scomparso ma risuscitato, vivo più che mai, colorato tra il bianco abbagliante e i cromatismi delle venature azzurre delle acque che giocano con gli strati: formano pozze, laghetti e anche piccoli torrenti. Il ghiacciaio del Calderone, il termometro dell’ambiente mediterraneo. E’ una sorta di pellegrinaggio, il nostro, verso la montagna e la sua memoria che custodisce la “neve perpetua”: il 23 settembre 1886, giorno dell’inaugurazione del rifugio Garibaldi, come mostrano le immagini del Cai di Teramo, qualcuno fotografò anche il ghiacciaio che allora si estendeva fino ai terrazzamenti della Vetta Centrale, fin sotto la cime; poi si è sempre più ritirato, nonostante la sua ubicazione originaria, in una latitudine bassa, anomala per un ghiacciaio, se non fosse per l’esposizione a nord, la sua forma a cucchiaio e le particolari condizioni topografiche di un circo glaciale stretto, allungato, incassato dentro le ripide pareti di Corno Grande. Ma il suo apparato è in crisi, il suo vecchio cuore risente dell’alimentazione nevosa e primaverile, può collassare come i ghiacciai dell’Himalaya che arretrano di circa 10 -15 metri l’anno, conseguenza del riscaldamento complessivo del clima. Perdere il Calderone può significare perdere un bene culturale naturale, una rarità naturalistica, una testimonianza scientifica, unica e infine spezzare quella linea di continuità, di “osservazione”, di contatto che ci lega ancora ai brani dell’esploratore Francesco De Marchi e alla città dell’Aquila.