Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Ma allora se si chiamava Onda ( il nome deriva dal latino unda, flutto), questa avrà pure significato qualcosa e, se non arrivava, c’era un problema… Se lo saranno chiesti i contadini di Onna, frazione del comune dell’Aquila, nel limite altimetrico più basso della Conca Aquilana ( 581m. s.l.m.), una sorta di imbuto, dove persino il fiume Aterno ansima, boccheggia e “risale” il suo corso verso la Media valle omonima, se misteriosamente l’acqua attesa, invocata e maledetta non arrivava, ed era inutile “aspettarla”. Così, in pieno film neorealista proviamo a immaginare i contadini , in bicicletta, con le zappe incassate nel manubrio (qui non utilizzate necessariamente per la campagna), di notte, in fila, attraversavano i campi con il chiarore della luna, superavano le case e le stalle appena illuminate dalle luci fioche delle lanterne dove qualcuno aveva iniziato la mungitura, per dirigersi dove abita l’acqua, su, verso Paganica e oltre, alla ricerca del “tappo” che chiudeva il corso d’acqua, e aveva creato poi un effetto domino, appunto a valle, nelle attese dei tanti coltivatori fermi davanti ai campi. Il dominio dell’acqua. Dispute feroci, che si trasformavano in veri scontri, si racconta con l’intervento dei carabinieri e anche del parroco chiamato di corsa per calmare gli animi. Loro, i blasonati onnesi, depositari dell’acqua come richiama lo stemma della “Terra di Onda” dipinto nel soffitto dell’ex convento di Santa Maria dei Raccomandati insieme ai più noti castelli del contado. Appartenenti poi per generazioni all’antica Confraternita dello Spirito Santo, di San Giacomo e infine del Fogliame, ortolani riuniti nel mercato minore di Piazza Duomo ( l’asse centrale della vendita degli ortaggi di diritto sancito a loro prima del sisma del 2009), sorta alla fine del XIV secolo , regolata da veri e propri Statuti che concedevano e prescrivevano agli associati, un tempo, il privilegio di portare sul sacco (saio) il falcetto (corlella) usato dagli ortolani per tagliare la verdura, potevano stare fermi e indifferenti? Ma c’è di più. “ Le avete rabboccate le marroccchie… il granone, che viene messo a solco e solo allora l’acqua può passare, e così, tra le file della coltivazione, non si perde…” era la sottile, ironica, allusiva raccomandazione, insopportabile, che i contadini di Paganica, autoproclamatisi padroni delle acque che scendevano dal Gran Sasso, usavano per schermirsi degli onnesi a cui “concedevano l’acqua”, a loro, coltivatori delle terre basse della conca aquilana:” i giardini dell’Aterno”. Così li chiamavano, campi preparati come un “salotto”, terra sciolta e sottile lavorata e curata nei dettagli in una concezione del suolo, sacro, come “Il corpo di Madre Terra” dove il paesaggio e l’acqua dovevano vivere in perfetto equilibrio, in simbiosi, indispensabile per la sopravvivenza di intere famiglie contadine e dei suoi numerosi componenti. Paratie, deviazioni, collegamenti tra i campi, saracinesche in legno, l’ingegno delle canalizzazioni non trovava ostacoli in un principio idraulico del governo delle acque senza precedenti del paesaggio agrario appena sotto le mura dell’Aquila, che iniziava nelle sorgenti del Vera, a Tempera. Il parco geo-antropico e la sua archeologia industriale fluviale, gioiello paesaggistico e un’altra occasione lasciata, delle tante inanellate, in oblio, delle frazioni dell’Aquila. Il torrente, nel suo viaggio tra mulini e rameria, tra gualchiera e cartiera attraversava le terre di Paganica, per dividersi in due canali, “Vera di sopra” e “Vera di sotto” ( Onna, Bazzano e San Gregorio) e scendere infine nel bacino della conca. Luigi Nardecchia, per oltre venti anni nella commissione d’irrigazione, una sorta di magistrato delle acque, raccontava che si iniziava con interminabili riunioni tra i contadini già dalla primavera condite con urla e sceneggiate pittoresche alla maniera della saga Don Camillo e Peppone ( le priorità erano gli orti, granturco, prati e le altre coltivazioni) per il regime delle acque, “prenderla”, liberare le paratie, irrigare i campi anche di notte e per l’approvvigionamento idrico dei numerosi animali nelle stalle, tanto che l’acqua non era sufficiente e spesso bisognava rinunciare, saltare i turni. E poi la dispensa ittica: tra le case e i campi, nei canali, si raccoglievano con le mani i gamberi, le trote, e l’acqua si poteva bere. L’acqua quindi , il dominio, il possesso ma nei versi delicati di un giovane poeta di Onna, Mario Di Vincenzo, scomparso a 23 anni nel 1961. Questa la poesia scritta a diciotto anni: “ Per un pezzo solo sono andato per un sentiero tra lattughe marine e cespugli di asfodeli bianchi, senza un luogo e un tempo, indefinitamente. D’un tratto un ruscello m’ha tagliato la via, ed uno sterminato prato d’acque iridescenti m’è sorto dinanzi, infinito, nel suo opale dagli smerigli granitici, immobile, e solo qua e là lievi increspature smeraldine colpivano l’occhio con i riflessi accesi al sole, indefinito nel cielo”.
Fotografie. Volo con l’elicottero pilotato da Giorgio Zecca. La frazione di Onna, la chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo ricostruita , il paesaggio urbano così come appare, i lembi di campagna, le casette costruite a seguito del sisma 2009.

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